»LIMONOW«


von
Emmanuel Carrère



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Intervista a Emmanuel Carrère

All’albergo degli scrittori – chiamiamolo così: sembra essere l’hotel preferito dalle case editrici italiane quando si tratta di far alloggiare a Roma i propri autori – questa volta l’ospite è Emmanuel Carrère. Si dà il caso che è uno che vale la pena incontrare. E poi dovrebbe essere una persona disponibile. Nel suo ultimo libro descrive di quando, giovane appassionato di cinema, fu ricevuto dal regista Werner Herzog per un’intervista; l’autore tedesco lo trattò così male da aver originato quello che somiglia molto a una specie di trauma. Insomma, c’è da dubitare che adesso Carrère voglia passare a sua volta per uno stronzo. Ma questo importa poco. Quello che è importa davvero sono i libri che Carrère ha scritto: tra gli altri, L’avversario, Vite che non sono la mia (tenete a mente questo titolo), Facciamo un gioco e poi una biografia su Philip Dick che sembra essere introvabile in Italia. Secondo Les Inrockuptibles è uno dei migliori autori francesi viventi. Nel suo paese fa incetta di riconoscimenti. In Italia gli hanno appena dato il premio Malaparte per il suo ultimo libro, Limonov (Adelphi); ne parliamo a lato, qui ci limitiamo all’osso: è il ritratto di Eduard Savenko, alias Eduard Limonov, un «avventuriero» russo. Quando si legge «avventuriero» è difficile non chiedersi cosa voglia dire: alla fine del libro di Carrère, se non altro sappiamo che il suo protagonista non potrebbe definirsi altrimenti. Nel corso della nostra chiacchierata, Carrère non esita a definirlo anche «carogna». Tanto per darvi un’idea.

Ritratto, si diceva: una parola che per Carrère ha un preciso significato – una parola che aiuta molto a definire i suoi libri; altrimenti, questa cosa di dover definire può diventare un bel grattacapo. Lui stesso, nel corso dell’intervista, per semplificare tutto quanto, spiega: se fossi un pittore, sarei un ritrattista. È una definizione precisa, che assumerà più avanti maggior chiarezza, ma andiamo con ordine.

— Prima di tutto, perché Limonov? Cosa la ha spinta a ritenere quest’uomo degno di essere ritratto in un libro?

— Diciamo che con Limonov avevo una specie di storia personale, per così dire. Non mi sono messo a pensare qualcosa come «vediamo, che personaggio potrei trovare della Russia contemporanea su cui scrivere»? In verità, come racconto all’inizio del libro, conoscevo già Limonov. L’ho conosciuto a Parigi, negli anni Ottanta. Non dico che fossimo diventati amici, ma era sorta una specie di simpatia tra di noi. Avevo letto e ammirato alcuni dei suoi libri. Poi per una ventina d’anni o non ne ho sentito parlare oppure ne ho sentito parlare molto male, nel senso che sembrava si fosse trasformato in una specie di gran fascistone. Una cosa abbastanza spaventosa. Poi, dopo questi venti anni di quasi-niente, me lo sono ritrovato reincarnato nei panni di un eroe dell’opposizione democratica russa, incontrandolo durante la commemorazione per le vittime al teatro delle Dubkrova: ne sono rimasto molto disorientato. È questo che mi ha spinto prima di tutto a scrivere un reportage su di lui. Perché avevo voglia di approfondire, capire meglio dove collocare Limonov nello scenario russo odierno. Ma neanche quel lavoro giornalistico mi è bastato per farmi un’idea. Così, per capire io stesso che cosa pensassi di lui, ho voluto fare qualcosa di più lungo: un libro.

— Nel raffigurare un personaggio così controverso, che problemi ha incontrato dal punto di vista stilistico ed etico?

— Inizierei dall’aspetto dello stile letterario. Fin dal reportage, il primo lavoro che ho scritto su Limonov, ho avuto l’impressione – molto positiva per me – di avere azzeccato il tono giusto. Ero riuscito a dare un ritmo vivace, allegro. Il che mi piaceva molto: mi sembrava di aver trovato la giusta tonalità. E in fondo tutto il libro che poi è seguito è rimasto fedele a questa specie di registro musicale. Devo dire che scriverlo è stato un gran piacere. Dal mio punto di vista, il tono che mi viene naturale è un «andante moderato». Con Limonov mi sono lanciato in questo «allegro», o «allegro vivace» che ho adottato con piacere; trovato il tocco giusto, il difficile è stato tenere questo andamento per tutta la stesura del libro.

— L’etica, dunque. In una lettera, Anton Cechov scriveva di essere molto fiero dell’indifferenza che lui provava verso i suoi personaggi; cosa ne pensa?

— Per quello che mi riguarda, non sono rimasto indifferente al mio personaggio – e leggendo Cechov dubito fortemente che quello che lui provasse realmente fosse indifferenza. Io ho avuto l’impressione di avere dei sentimenti quasi sempre molto forti nei riguardi di Limonov, e quasi sempre contrastanti tra loro. In certi momenti Eduard mi sta molto simpatico, in altri lo detesto. Durante la stesura mi capitava di chiedermi che razza di oggetto fossi andato a trovarmi; un attimo dopo mi dicevo «caspita, che diavolo di storia formidabile e avventurosa che ha questo personaggio». Alla fine sono rimasto con quella strana difficoltà che si prova a farsi un’idea precisa del protagonista di cui scrivi. E secondo me per un autore questo è un ottimo motore, e rende la lettura più interessante: il fatto che io non sappia esattamente cosa pensare.

— Ma devo ammettere che si sono stati alcuni momenti più difficili di altri. In particolare uno, e nel libro lo racconto: quando Limonov si trova nell’ex Jugoslavia, all’inizio degli anni Novanta. Non si tratta soltanto di riserve morali e politiche scaturite dal vederlo impegnato nelle guerre balcaniche. Il vero disagio è averlo visto, a un certo punto, sparare con la mitragliatrice in direzione di Sarajevo, sotto lo sguardo benevolo di uno come Radovan Karadzic (l’ex leader serbo accusato di crimini di guerra e genocidio dal tribunale dell’Aia, ndr). In questo caso, oltre a rendermi conto di avere a che fare con… una vera carogna, mi è parso un ometto, un cattivo, ma un cattivo meschino. Questo mi ha indotto a lasciare questo libro per quasi un anno.

— Leggendo i suoi libri, sembra che prevalga in lei l’interesse per le vite degli altri, o per le biografie.

— In realtà l’unica biografia «vera» è quella su Philip Dick, e non è neanche una biografia tradizionale… in Vite che non sono la mia parlo di un gruppo di personaggi reali, ma sono noti solo a me, non a tutti. Come definirei allora i miei libri? Dei ritratti. Se io fossi un pittore, sarei sicuramente un ritrattista. Tantissimi pittori ritraggono la figura umana. Quando osservi i quadri di alcuni autori, hai l’impressione che si tratti di personaggi immaginari – per il modo che hanno di disegnare i volti: devono essere facce che stanno soltanto nella testa del ritrattista. Ma se guardi altri quadri, senti da qualche parte che certi pittori stanno ritraendo, in modo molto rassomigliante, delle persone reali. E ciascuno di noi, di chi guarda, anche inconsapevolmente, se ne accorge, coglie questa differenza. Pensi a Michelangelo: uno non ha l’impressione che quando ritrae dei volti stia ritraendo delle persone reali, quanto qualcuno che popola la sua mente, che sta nella testa di Michelangelo. Ma guardiamo ora il Ghirlandaio, invece, un altro grandissimo pittore; perlomeno a me, fa l’effetto di dire: «Sì, quello che vedo nei suoi quadri è qualcuno che ha incontrato per strada, che ha visto realmente». Quindi direi – e non so quanto sia una mia scelta quanto sia per via del tipo di capacità o di talento – che io sono questo secondo tipo di ritrattista. E qui non sto dando nessun giudizio di valore: tra Michelangelo e Ghirlandaio, chi potrebbe dire quale dei due è un miglior pittore? Non si può dire: semplicemente rispondono a due temperamenti diversi.

— Sembra un tema che la affascina molto.

— Sì. Aggiungo un ricordo personale. Qualche tempo fa mi trovavo a Firenze e ho rivisitato questa cappella affrescata dal Gozzoli, nel Palazzo dei Medici. Raffigura una processione. All’inizio della processione tu vedi, senti che sta ritraendo dei personaggi che non possono non essere presi di peso dalla corte dei Medici. Ma più vai verso il centro spirituale del tema ritratto, e più ti accorgi che i personaggi – angeli, eccetera – non sono presi dalla vita vera. È un affresco meraviglioso dove soprattutto è molto interessante questa sorta di progressione: via via questo modo di ritrarre si idealizza e ci sono dei volti che evidentemente sono immaginari. Quando guardi quel tipo di raffigurazioni, puoi anche non sapere di cosa si tratti. E però istintivamente avverti la differenza: qui si sta ritraendo qualcosa di vero, qui l’artista se lo è immaginato. E questo vale anche per il mio libro su Limonov. Poniamo il caso che Google non esista. Leggendo questo libro, qualcuno potrebbe davvero pensare che sia un parto della mia fantasia? Io non credo, penso che si avverta che ci sia una storia vera dietro. Senti, in un certo modo che non è facilmente spiegabile, direi intuitivo, se la storia è vera o no, se il personaggio – il volto – è vero o no, mancando ogni supporto esterno.

— Dunque, se un lettore che non sappia chi è Limonov dovesse pensare che il suo è un personaggio inventato, significherebbe che il libro è riuscito? Sarebbe gratificante per lei?

— Non ho una teoria in merito, come si renderà conto. Piuttosto ho una serie di intuizioni. Il mio libro L’avversario, si basa su un fatto di cronaca realmente accaduto. Penso che se fosse stato un parto esclusivo della mia immaginazione, insomma pura finzione, sarebbe stata una finzione «cattiva», che non stava in piedi; se avessi scritto quel libro per poi proporlo al mio editore come un parto della mia fantasia, lui mi avrebbe risposto: «bene, l’idea è buona, la storia è interessante, ma vai a casa e riscrivilo, rendilo verosimile». Perché la finzione letteraria è tenuta alla verosimiglianza. Penso che lo scopo di un libro sia di farti credere per verosimiglianza che il personaggio sia autentico.

— Questa della letteratura che tende alla realtà, che «confonde» cronaca e immaginazione, sembra una tendenza vera e propria degli ultimi dieci anni almeno, non trova?

— Sì, sono d’accordo che ci sia questa tendenza, e che siamo in tanti. Tra gli scrittori francesi che conosco, c’è un grande mio amico, Jean Echenoz. Ultimamente ha scritto solo romanzi biografici, «vite di»: il compositore Ravel, il corridore Emil Zatopek, e poi… ora non ricordo, insomma quel rivale di Edison (Nikola Tesla; il libro di Echenoz è stato tradotto in italiano con il titolo di Lampi, ndr). Lui, questo mio amico, mi dice: in questo momento ho voglia di scrivere di vite. E io gli rispondo… anch’io. In fondo quanto è strano, buffo, che ciascuno pensa – quando scrive – di seguire una sua inclinazione, tutta intima e privata. E poi ci ritroviamo tutti a fare la stessa cosa.

— Una delle sue influenze dichiarate è Truman Capote. È stato un aiuto alla sua scrittura?

— In realtà non so se mi ha aiutato. Forse sì. Il debito nei confronti di Capote è cominciato quando stavo scrivendo L’avversario, perché malgrado tutto oggigiorno chiunque scriva di vicende effettivamente successe, su fatti di cronaca, non può farlo fuori dall’ombra di A sangue freddo, che è un libro enorme, un libro grandissimo. Certo: come ombra intimidisce parecchio, se non finisce addirittura con il paralizzare. Tutte le teorie di Capote sul non fiction novel mi ha aiutato a trovare questa forma che è molto libera e nella quale mi sento molto a mio agio. E adesso che mi ci fa pensare, se vogliamo penso di poter dire di essermi tirato fuori da quest’ombra così ingombrante. Perché a un certo punto ho dovuto – forse addirittura costretto – passare alla prima persona singolare, cosa che Capote non fa, anzi, al contrario: lui si tira fuori, pretende una grande obiettività – che naturalmente non ha: fa finta di non essere implicato, ma non è vero, è una gran balla. Io ho scelto – o forse non si è trattato di una scelta, ripeto, quanto di un passaggio obbligato – di entrare in scena, di entrare anche io dentro.

— Per concludere: mi sembra che Limonov sia anche il racconto di una nazione, la Russia; è così?

— Assolutamente. La Russia è una grande dispensatrice di storia. E di storie.


Tito Lima | «Il Mucchio.it», 22 novembre 2012

Emmanuel Carrère

Original:

Tito Lima

Intervista a Emmanuel Carrère

// «Il Mucchio» (it)
22.11.2012