»LIMONOW«


von
Emmanuel Carrère



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Eduard Limonov. L’uomo che diventò romanzo

Eroe, avventuriero o carogna? Parla lo scrittore russo reso famoso dal libro di Emmanuel Carrère. «Non cercavo soldi né premi Volevo questa vita. L’ho avuta E non è ancora finita».

Limonov. E ora fatemi un film

Teppista in Ucraina, barbone a Manhattan, dandy a Parigi. Ha combattuto e forse ucciso accanto al boia Arkan, disprezza Gorbaciov e Bulgakov, guida un partito di nostalgici dei Soviet. Settant’anni a giorni, ci accoglie nella sua casa di Mosca il controverso eroe maledetto protagonista della biografia del momento. In cui su di sé lascia che si raccontino cose anche peggiori: «Alcune vere, altre chissà...»

Qual è il colmo per un romanziere? Diventare famoso come eroe di un romanzo scritto da un altro. Eduard Limonov vive questa situazione diviso tra vanità e orgoglio ferito: «Chiedete a lui. È Carrère che ha fatto un libro su di me. Sulla mia vita, sul mio talento. Io su di lui cosa avrei potuto scrivere?». E la parte del personaggio che si ribella all’autore gli riesce benissimo. Seduto a una scrivania di finto mogano, in una casa umida al terzo piano di una krusciovka costruita negli anni Sessanta per i funzionari di partito di seconda fascia, fa di tutto per smentire le tesi della biografia più letta del momento: Limonov, di Emmanuel Carrère appunto. Se siamo venuti a cercare l’intellettuale maledetto, cinico e ribelle, allora abbiamo sbagliato. Indossa un giubbotto da sci per via del riscaldamento insufficiente e con l’aria preoccupata mi invita a pulire bene le scarpe dalla neve per non bagnare il logoro parquet riverniciato a mano color rosso sangue.

Limonov mette in evidenza tutte le lentezze e gli acciacchi dei settant’anni che compirà sabato prossimo. E continuerà per tutta l’intervista ad alternare due gesti: fissarsi timidamente le punta delle dita come uno studente impreparato, e lisciarsi il pizzetto alla Trotzky con l’autocompiacimento di chi si sente «un personaggio unico». Ma via via il personaggio di Carrère torna fuori da solo con un’unica piccola concessione a un sogno un po’ infantile: «Mi piacerebbe che facessero un film su di me. Tarantino sarebbe l’ideale.

— I suoi romanzi sono universalmente apprezzati, ma deve ammettere che lei non è mai stato così famoso come oggi.

— Sono contento per Carrère, starà facendo un sacco di soldi. Ha costruito un mito e lo ringrazio. Ma mi raccomando: non è tutto vero, il mito non deve essere mai autentico.

— Che fa, rinnega le parti più scabrose? Per esempio quella in cui sodomizza sua moglie sulla colonna sonora di un discorso di Solgenitsin? Oppure quando si fa possedere da un ragazzo di colore a Central Park?

— Carrère ha saccheggiato i miei libri. Ha riportato cose che avevo scritto io in prima persona, ma sotto pseudonimo. Io mi chiamo Savenko. Limonov è un nome d’arte e di battaglia.

— Dunque sono tutte invenzioni?

— Ripeto: sono i miei libri. Ci sono cose che ho fatto, cose che avrei solo voluto fare e cose che forse non avrei fatto mai. Ma non vi dirò mai quali. Limonov è come l’Henry Chinasky di Bukowski.

— Ecco tre giudizi tratti dalle innumerevoli critiche a Limonov: «Un fascista», «Un genio assoluto», «Un perfetto stronzo». Quale le sembra più corretta?

— Bellissime tutte e tre, ma assieme. Separate non vale.

— Dal teppismo giovanile alla fuga in America fino alla formazione del partito nazionalbolscevico. Il suo personaggio è roso dall’ambizione del successo. Lo ha raggiunto, infine?

— Il successo che cercavo non era quello del denaro o dei premi letterari. Volevo una vita di questo genere. L’ho avuta. E non è ancora finita.

— Carrère le fa dire: «Una vita di merda».

— Questo lo pensa lui che è un borghese. Io sono fiero di non essere finito come tanti miei coetanei persi nell’alcol in una periferia di fabbriche e discariche.

— Vede che anche lei prova pietà, per i mediocri, per i falliti?

— No, la pietà non serve a nessuno. E io non la provo per nessuno. Nemmeno per me stesso. Odierei chi mostrasse di provare pietà per me.

— Nel libro lei quasi esulta per la notizia che il bambino dei vicini sta per morire di cancro. È davvero tanto cinico?

— Ricordo bene, dissi che la morte non risparmia nemmeno i figli dei ricchi. Non è forse vero? Sono un cinico nel senso che il cinismo è il livello estremo del realismo.

— C’è un’altra sua sparata che inquieta il lettore: «Bisogna impostare la propria vita sulla ostilità di tutti quelli che ci circondano».

— Verissimo. L’ho imparato già dai compagni di scuola. La lotta tra gli individui è naturale. Si cerca la supremazia su ogni cosa. Dalla merendina alla donna, al potere. Anche ora sono odiato.

— Da chi?

— Dai miei coetanei. Mi odiano perché ho vissuto così, perché ho fatto scelte che loro non hanno avuto il coraggio di fare. Perché scrivo bene. Io credo che come non esiste profeta in patria, non può esistere un profeta della propria generazione. I giovani mi ammirano, sperano di imitarmi. Ma quelli che hanno avuto lo stesso tempo a disposizione e lo hanno usato male sono lividi di invidia.

— Neanche lei è stato tenero con i suoi contemporanei. Sembra che faccia apposta a scegliere come idoli personaggi negativi e denigrare miti universali. Cominciamo dai suoi colleghi. Il Nobel Iosif Brodskij?

— Poeta sopravvalutato, abile manager di se stesso.

— Sergej Bulgakov?

— Ripugnante razzista sociale e nemico della classe operaia come dimostra Cuore di cane. Reso famoso da un’operina piatta e senz’anima come Il Maestro e Margherita.

— Evgenij Evtushenko?

— Mediocre poeta e uomo molto meschino. Ve lo assicuro.

— Boris Akunin?

— Scrittore quello? Non scherziamo.

— Aleksandr Solgenitsyn?

— Poveretto. Ha assistito con la fine dell’Urss alla fine di tutto quello che aveva scritto. Adesso la gente non legge più quella roba. Preferisce i miei libri che parlano di problemi universali, eterni, come il conflitto con se stessi, l’amore, l’odio.

— È vero che disse no a Lawrence Ferlinghetti, il poeta-editore della beat generation che voleva pubblicare il suo primo romanzo, Io Edicka?

— Sì. Mi chiese di scopiazzare un finale da Taxi Driver. L’eroe, cioè io, avrebbe dovuto uccidere un personaggio famoso come De Niro nel film. Devo dire che è una di quelle cose che ogni tanto ho pensato di fare. Ma non mi andava di scriverla.

— Passiamo ai politici. Ha detto che Gorbaciov andrebbe ghigliottinato. E poi è stato amico di un criminale di guerra come Karadzic. Conferma?

— Ghigliottina o fucilazione, scegliete voi. Gorbaciov meriterebbe di essere punito per quello che ha fatto lasciando sgretolare un impero e facendoci perdere la dignità. Quanto a Karadzic era un uomo mite e colto, sono fiero di essere stato suo amico. Un giorno sarete costretti a rivalutarlo.

— Anche il boia Zeljko Arkan?

— Ho combattuto al suo fianco. Aveva un passato criminale ma era un guerriero che lottava per la sua patria.

— Carrère teme che nella ex Jugoslavia lei abbia sparato sui civili.

— Mai. Gente in divisa ne ho vista cadere mentre sparavo. In guerra è così.

— Adesso sembra di vedere il Limonov leader del semiclandestino partito nazionalbolscevico. A proposito, perché un nome così contraddittorio?

— Marketing. Serve solo ad attirare l’attenzione e a risvegliare antiche energie. Siamo un partito di duri contro uno stato poliziesco. Niente a che vedere con l’opposizione borghese che va in piazza di tanto in tanto.

— Ma ha ancora un senso avere nostalgia dell’Urss?

— Macché nostalgia! L’Urss per i russi è come la Roma imperiale per l’Occidente. Nessuno pensa a ricostruirla così com’era. Ma vogliamo che rimanga oggetto della nostra fierezza storica. Un’ispirazione da non perdere.

— Per questo obiettivo ha smesso di scrivere romanzi?

— Non ne scrivo più dal 1990. E forse non ne ho scritti mai. In America i miei libri uscivano con la dicitura fictional biography. Il romanzo inteso come una storia del tutto inventata non ha più senso. Roba dell’Ottocento. È come l’opera lirica, la danza classica, la pittura figurativa. I capolavori passati restano. Ma fare opere nuove è ridicolo. Meglio i saggi. I verbali. Le storie vere, magari un po’ «migliorate». Lo dico io, ma lo sanno bene gli editori. Il successo di Carrère ne è un esempio.

— Successo di Carrère ma anche di Limonov. Non le pare?

— Diciamo che lui ha spiegato Limonov ai borghesi. Speriamo capiscano».

Nicola Lombardozzi


Carrère.Ma non volevo si trasformasse in mito

«È stato teppista in Ucraina, idolo dell’underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso nell’immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna». È in questi termini che il francese Emmanuel Carrère parla di Eduard Limonov, l’imprevedibile e controverso scrittore russo a cui ha dedicato una biografia di grande successo: Limonov (Adelphi).

Autore di culto molto apprezzato, Carrère adora mescolare realtà e finzione, proponendo libri ibridi in cui non esita a mettersi in gioco in prima persona. Lo ha fatto anche nel caso di Limonov. «L’ho conosciuto all’inizio degli anni Ottanta a Parigi — ci racconta — dove si era stabilito poco dopo la pubblicazione del suo primo romanzo».

«All’epoca ci eravamo anche un po’ frequentati», racconta il cinquantacinquenne scrittore francese. «Era un artista emarginato e stravagante, le cui provocazioni apparivano lontane dalla serietà un po’ grigia dei dissidenti sovietici dell’epoca. Ci sembrava una specie di Jack London russo».

— In seguito lo ha perso di vista?

— Sì, ma ogni tanto giungevano notizie che lo rendevano meno simpatico. Ad esempio, nei Balcani ha combattuto al fianco dei serbi. Più tardi in Russia ha creato il partito nazionalbolscevico che assomigliava a una specie di milizia fascista. Nel 2006 però, a Mosca, mi sono reso conto che Limonov era molto stimato dall’opposizione democratica russa. A me sembrava una specie di fascio-comunista, ma i democratici del suo paese lo consideravano quasi un eroe. Sorpreso e incuriosito, ho deciso allora di fare un reportage su di lui, scoprendo un personaggio assolutamente romanzesco, la cui storia mi dice molto della Russia contemporanea e del caos ideologico in cui viviamo. Oltretutto, ricostruire la biografia di Limonov mi ha permesso di scrivere qualcosa che non avevo mai scritto, vale a dire un romanzo d’avventura un po’ alla Dumas.

— Alla fine ha capito chi è veramente Eduard Limonov?

— È uno che coltiva l’ambiguità, un personaggio sfuggente. Mentre scrivevo il libro, spesso non sapevo cosa pensare di lui. Da un lato mi sembrava un personaggio affascinante e picaresco, dotato di grande vitalità, energia e coraggio. Dall’altro mi sentivo a disagio per certe scelte e dichiarazioni ingiustificabili. Temevo di valorizzare troppo un individuo discutibile. Alla fine ho cercato di mostrare le sue diverse facce, senza rinchiuderlo in uno schema precostituito.

— Un eroe maledetto?

— Forse. In ogni caso un ribelle che non si è mai schierato dalla parte del potere. Nel 2004, dopo due anni e mezzo di prigione, avrebbe potuto diventare uno scrittore adulato e ben pagato. Invece è rimasto povero ed emarginato. Nonostante in lui ci sia una dimensione indiscutibilmente fascista, è sempre stato dalla parte delle minoranze e dei più deboli. È un po’ un Robin Hood, il che lo rende simpatico. In definitiva, è un uomo rimasto fedele al sogno di tutti i bambini di vivere una vita avventurosa.

— Perché ha scritto la biografia mettendosi in scena apertamente?

— Non ho la pretesa di dire la verità assoluta su Limonov, ma solo la storia come l’ho vista io. Il mio è al contempo biografia e romanzo, di cui, per onestà nei confronti del lettore, rivendico la soggettività. Non è una biografia all’americana con centinaia d’interviste. Per ricostruire la sua vita, mi sono basato soprattutto sui suoi libri, fidandomi di lui e della sua memoria. Perché sono convinto che nei libri non abbia mentito, il che naturalmente è perfettamente discutibile.

— Come ha reagito il diretto interessato?

— Ha deciso di non fare commenti né rettifiche. Non nasconde però di essere contento, dato che il libro gli ha permesso una specie di resurrezione. In Francia, molti dei suoi libri che erano ormai esauriti sono tornati in libreria. Ciò mi fa molto piacere, perché è innanzitutto uno scrittore di valore, autore di libri importanti. Soprattutto i romanzi autobiografici, meno i suoi libri politico-filosofici.

— Cosa crede che pensi Limonov di lei?

— Con me è sempre stato gentile e disponibile, ma al contempo distante. Non ha mai cercato di affascinarmi o di sembrare migliore o diverso da quello che è. Io e lui non apparteniamo allo stesso mondo. Per lui sono un intellettuale borghese e socialdemocratico, il che, dal suo punto di vista, è il peggio che ci possa essere. Eppure mi ha dimostrato una certa riconoscenza e simpatia. L’ultima volta che ci siamo visti a Mosca mi ha detto: «Ti auguro di finire male». Che per lui è probabilmente un augurio molto amichevole.

Fabio Gambaro

«La Repubblica. La Domenica», #23, 27 gennaio 2013

Emmanuel Carrère

Original:

Nicola Lombardozzi & Fabio Gambaro

Eduard Limonov. L’uomo che diventò romanzo

// «La Repubblica. La Domenica» (it)
27.01.2013