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von
Emmanuel Carrère



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Psicoanalisi di un testimone

Cristiano de Majo

Ritratto di Emmanuel Carrère, l’autore di Limonov, romanziere di successo con le vite degli altri. Un uomo che ha scavato in se stesso attraverso esistenze altrui.

Nato nel 1957 a Parigi, cresciuto in una famiglia dai tratti conservatori dell’alta borghesia — sua madre Hélène, nota russista, è segretario permanente dell’Académie française — laureato alla prestigiosa Sciences Po, conosciuta per essere l’università dei figli di papà parigini, autodefinitosi con l’onestà che lo contraddistingue un bobo, un bourgeois-bohéme, ma allergico allafunzione dell’intellettuale, padre di tre figli, Emmanuel Carrère è stato nel 2012 lo scrittore sulla bocca di tutti. Non che prima dello scorso anno fosse uno sconosciuto, ma l’uscita in Italia — che ha anche segnato il suo passaggio da Einaudi ad Adelphi — di Limonov, libro considerato da molti tra le migliori cose lette negli ultimi anni, lo ha inserito di diritto nella esclusiva lista degli scrittori fondamentali di quest’epoca. Non solo quindi un emozionante ritrattista della verità, ma un abile sperimentatore della literary non fiction con le potenzialità di un classico.

Scorrendo in ordine cronologico la lista dei suo libri, è facile individuare un momento di repentino cambio di rotta dello scrittore. Arriva dopo cinque romanzi e due saggi ed è in qualche misura determinato da un fatto di cronaca, il caso Romand, che ispirerà prima il racconto di finzione La settimana bianca e sarà poi oggetto dell’indagine letteraria contenuta nell’Avversario. Da questo momento, Carrère, che aveva già scritto una biografia di Dick intitolata Io sono vivo, voi siete morti (Hobby & Work Publishing 2006), abbandona senza più guardarsi indietro la strada del romanzo e inanella quattro biografie/autobiografie che sono parti di unico corpo (L’Avversario, appunto, La vita come un romanzo russo, Vite che non sono la mia e Limonov).

Ponendo l’autoricerca come un presupposto per attraversare gli altri, il ritrattista Carrère mette in fila: un pluriomicida, i genitori di una bambina di quattro anni uccisa dallo tsunami del 2004, una sua giovane cognata morta di tumore e un collega di lei sopravvissuto alla stessa malattia, un nonno su cui aleggia il sospetto del collaborazionismo, un prigioniero di guerra ungherese ridotto alla follia dopo cinquant’anni trascorsi in un campo di prigionia russo, una giovane donna della periferia sovietica trucidata a colpi d’ascia con il figlio neonato, uno scrittore avventuriero diventato leader di un movimento skinhead. La vita dello scrittore si fonde con altre vite che non sono le sue, in una smagliante indagine sul senso del dolore e l’ambiguità del male.

«È come se mi fossi aspettato da ciascuno di loro che incarnasse una certa potenzialità dell’essere umano, qualcosa che c’è anche in me. […] Ho bisogno, insomma, di potere indovinare qualcosa dei mei personaggi che sento esistere in me stesso, e che suppongo, dunque, trovi risonanze anche nei miei lettori», dice in un’intervista (a firma Francesca Borrelli sul Manifesto del 7 ottobre 2012) ed è esattamente il motivo che spiega perché i suoi personaggi diventino per il lettore così irrinunciabili. Solo sostituendo al giudizio la curiosità e la messa in gioco si può trivellare nella natura umana, e solo trivellando nella natura umana si possono scrivere pagine così potenti. Perché, sia chiaro, nei libri dello scrittore francese, come in quelli di qualunque scrittore di talento, non c’è nessun intento filantropico. L’unico obiettivo è scrivere nel modo più efficace possibile. La letteratura travolge tutto, le sue compagne, sua madre, persino i suoi figli, ciascuno coinvolto a vario titolo in questi quattro libri.

Il dubbio psicoanalitico — del resto la psicoanalisi è una disciplina a cui lo scrittore non è affatto estraneo — è che Carrère scelga di inquadrare nel suo obiettivo vite particolarmente ricche di emozioni per compensare un vuoto, un’assenza di dolore con cui non riesce a giustificare la sua fascinazione per il mal di vivere. Il borghese anestetizzato, l’uomo insicuro e incapace di amare, va a caccia di se stesso nelle biografie altrui, come se i traumi che non gli appartengono fossero uno strumento per risalire al proprio rimosso.

In un episodio raccontato nella Vita come un romanzo russo (Einaudi 2009), rievoca la morte della sua tata Nana. All’epoca aveva undici anni. La tata rincorreva lui e le sue sorelle, mentre i genitori avevano ospiti a cena. Ricorda di aver dato alla tata uno spintone, a causa del quale la tata sarebbe caduta a faccia a terra e sarebbe poi morta. Negli anni si convince che la versione ufficiale di quella morte — un attacco di cuore — sia stata una menzogna orchestrata dai genitori per non colpevolizzarlo. Ma proprio quando hanno luogo le vicende raccontate nelRoman russe, grazie a una cena con i suoi, durante la quale riesce a indagare a fondo sul fatto, capisce dopo tutti quegli anni che il padre e la madre non gli hanno mai mentito.

Eppure il mio ricordo resta preciso, vivido, rimanda a qualcosa di reale, e il senso di colpa che suscita mi ha accompagnato per tutta la vita. Forse non ho ucciso Nana, ma allora chi ho ucciso? Che crimine ho commesso?

Allo stesso modo il Grande Trauma Familiare, che nello stesso libro Carrère porta alla luce nonostante l’aperta ostilità della madre, rappresentato dalla misteriosa scomparsa di suo nonno a Bordeaux nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione, si rivela in fondo piuttosto piccolo, visto che quella che doveva essere un’indagine sul passato oscuro e censurato di quest’uomo, brillante quanto inconcludente immigrato georgiano nella Francia degli anni Venti, diventa un oggetto estremamente più inafferrabile e digressivo, sovrapponendo il reportage dalla terrificante cittadina russa di Kotel’niĉ alla cronaca del devastante fallimento di una sua relazione sentimentale.

In definitiva, se è vero, come vuole il vecchio adagio romantico, che lo scrittore debba aver sofferto, i traumi di Carrère non appaiono così eccezionali da giustificare la sua missione letteraria. D’altra parte è un uomo che si ritrova per scelta, ma più spesso per caso, testimone di eventi che chiedono di essere raccontati. E in questa combinazione di fattori si può forse leggere la sua scelta di abbandonare il romanzo per il genere biografico.

Il suo apprendistato è condensato magnificamente in una decina di pagine di Limonov (Adelphi 2012). Si descrive come un bambino giudizioso e uno studente troppo colto. Un dandy di destra per rifiuto del conformismo o per troppa conformità all’educazione familiare. D’altra parte la condizione di borghese privilegiato viene continuamente dichiarata in tutti i suoi libri.

Nato in una famiglia borghese di un quartiere elegante, abito ora in una zona di Parigi decisamente radical-chic. Figlio di un alto dirigente e di una storica famosa, scrivo libri e sceneggiature, e mia moglie è giornalista. I miei genitori hanno una casa di vacanza sull’Ȋle de Ré, e a me piacerebbe comprarne una nel Gard. Non che questo sia un male o limiti le possibilità di arricchimento dell’esperienza umana, ma, insomma, dal punto di vista geografico e socioculturale non si può dire che la vita mi abbia condotto molto lontano dal punto di partenza.

Dopo la laurea, in sostituzione del servizio militare, com’era possibile nella Francia dell’epoca, partecipa a un progetto di cooperazione internazionale e insegna francese in Indonesia, sull’isola di Giava. Qui vive l’immancabile storia d‘amore, e lavora al suo primo romanzo, ascrivibile, come dice lui stesso ironicamente, al genere «primo romanzo di un cooperante» che in quegli anni si era ritagliato un suo piccolo spazio (L’Amie du jaguar). Al ritorno in Francia collabora con una rivista di critica cinematografica e un piccolo editore gli commissiona una monografia su Werner Herzog — ammiravo Herzog come fosse un superuomo e di conseguenza ero ancora più avvilito di non essere io stesso un superuomo — ma l’incontro con il mitologico regista tedesco si rivela fonte di grandissima umiliazione.

Herzog, che pure era capace di provare una fervida compassione per un aborigeno sordomuto o un vagabondo schizofrenico, considerava un giovane cinefilo con gli occhiali una cimice che meritava di essere moralmente schiacciata, e io ero il candidato ideale a quel trattamento.

Incredibilmente l’episodio, rivissuto a posteriori, si dimostra per lo scrittore una rivelazione per antitesi della sua poetica, nel momento in cui Carrère trova in un Sūtra buddhista l’antidoto a quello che definisce il comportamento fascista di Herzog: l’uomo che si ritiene superiore, inferiore o anche uguale a un altro non capisce la realtà. Un pensiero che sembra essere il principio ispiratore non solo di Limonov, da cui è tratto, ma di tutti i libri citati e in particolare dell’Avversario (Einaudi 2000), resoconto giudiziario e storia della vita di Jean-Claude Romand, icona del male e prigioniero della menzogna, per anni attore di una vita non sua (una finta laurea in Medicina e un finto incarico all’Organizzazione mondiale della sanità a Ginevra), fino a scoppiare e a uccidere, il 9 gennaio del 1993, la moglie, i due figli e i genitori, diventando il protagonista del più clamoroso caso di cronaca nera della Francia moderna.

Il miracolo di questa grandissima indagine sull’uomo è, per l’appunto, riassunto in quel detto buddista. Carrère, come già il Capote di A sangue freddo — dichiarata fonte d’ispirazione del libro — ma con un punto di vista molto più partecipato, riesce nel difficilissimo compito di non considerare Romand un altro da sé. Questo non vuol dire che lo accetti cristianamente tra le sue braccia. Anzi, non fa nulla per nascondere il terrore che l’uomo gli incute, ma al tempo stesso usa la scrittura per capirlo. Con il risultato che, di fronte a questa ricostruzione, il lettore prova un sentimento ambivalente che è esattamente la chiave per interpretare la banalità del male: da un lato il rifiuto, il senso di assurdo; dall’altro la possibilità che a determinate condizioni, dettate per lo più dal caso, chiunque possa diventare Romand.

Se Romand è il polo negativo, quello positivo è rappresentato dalle due Juliette di Vite che non sono la mia (Einaudi 2011). La prima è una bambina di quattro anni travolta dallo tsunami del 2004 su una spiaggia dello Sri Lanka, figlia di una coppia con cui Carrère e la sua compagna Hélène, che si trovavano nella stessa località per le vacanze di Natale, avevano familiarizzato da qualche giorno. La seconda è la sorella di Hélène, giudice e madre di tre figlie, colpita da un tumore gravissimo, poche settimane dopo il ritorno della coppia da quelle tragiche vacanze. In questo libro è particolarmente evidente come il caso, o il destino, giochi un ruolo determinante nel percorso letterario dello scrittore francese. Ma un altro agghiacciante esempio si può trovare nel Roman russe, quando durante il soggiorno a Kotel’niĉ, Carrère conosce e resta umanamente attratto da Anja, che sarà poi uccisa a colpi d’ascia nel suo appartamento insieme al figlio di pochi mesi, o quando incontra Limonov a Mosca, a una commemorazione per le vittime di Beslan. E sembra quasi che la vita chiami lo scrittore a testimoniare, e che lo scrittore, anche se con mille dubbi, scelga di rispondere a questa chiamata. Sembra cioè che Carrère veda se stesso, in quanto scrittore, come un interprete di segni del destino.

Vite che non sono la mia è sostanzialmente un libro sulla felicità. Una libro dove si cerca la felicità nel dolore, che lo stesso autore definisce come un tentativo di riscattarsi dalle sue discese negli inferi.

Tecnicamente andava scritto come L’avversario, in prima persona, senza finzione, senza artifici, e di quel libro al tempo stesso era l’esatto contrario, il suo positivo, in qualche modo era ambientato nella stessa regione, nello stesso ambiente, i personaggi abitavano le stesse case, leggevano gli stessi libri, avevano gli stessi amici, ma da un lato c’era Jean-Claude Romand che è l’incarnazione della menzogna e dell’infelicità, dall’altro Juliette ed Étienne che, tanto nell’esercizio del diritto quanto nella lotta alla malattia, non hanno mai smesso di perseguire la giustizia e la verità.

Ma Vite che non sono la mia e L’avversario presentano altri due importanti elementi in comune. Il primo è che vengono entrambi iniziati, poi abbandonati, poi ripresi; scritti cioè con una lunghissima gestazione e afflitti dall’indecisione di volerli portare a termine. Il secondo, evidente nel passo citato sopra, è l’immersione, che per Carrère è quasi esotica, nella normalità (o anormalità) della vita borghese non parigina, che, oltre a essere lontana anni luce dal suo ambiente naturale, è anche l’opposto speculare dei paesaggi attraversati dall’avventuriero Limonov e del degrado post-sovietico descritto nella Vita come un romanzo russo.

Era la vita come la mostrano le pubblicità delle società fiduciarie o dei prestiti bancari, la vita in cui ci si preoccupa del tasso annuo del libretto di risparmio e del calendario delle vacanze scolastiche, la vita Auchan, la vita in tuta da ginnastica, la vita media in qualsiasi cosa, sprovvista non soltanto di stile ma anche della coscienza che ci dice che è possibile cercare di dare una forma e uno stile alla propria esistenza. Squadravo quella vita dall’alto in basso, non l’avrei mai voluta, eppure quel giorno guardavo i bambini, guardavo i genitori riprenderli con le loro videocamere, e mi dicevo che scegliere di vivere a Rosier non era solo scegliere la sicurezza del gregge, ma era scegliere l’amore.

L’amore, o la sua ricerca, è un tema fondamentale nella sua autobiografia. Sposato con Anne, da cui ha due figli maschi, mentre scrive L’avversario — lo sarà per tredici anni — nel periodo descritto in La vita come un romanzo russo, ha una storia con Sophie, che occupa una parte centrale nel libro. È una donna che Carrère sente non alla sua altezza da un punto di vista culturale, ma nei cui confronti prova un fortissima attrazione fisica. La sua bellezza sembra, in un modo adolescenziale, offrirgli una forma di sicurezza.

Andiamo a cena da amici miei, nel Marais. Tutti si conoscono, tutti sono più o meno nell’ambiente del cinema, e più o meno allo stesso livello di successo o di notorietà. Quando arrivo con la mia nuova fidanzata, accade qualcosa, che accade ogni volta e di cui godo intensamente. Come se avessero spalancato le finestre, come se prima che entrasse lei la stanza fosse più piccola, più buia, più opprimente. È al centro, subito. Accanto a lei tutte le ragazze, anche le più carine, hanno un’aria impacciata. Sento che gli uomini mi invidiano, si domandano dove l’abbia scovata, e il fatto che non sia completamente conforme agli standard del nostro piccolo ambiente, che rida un po’ troppo forte, che si agiti un po’ troppo, mostra quanto io sia libero, affrancato dall’endogamia imperante tra noi. Ma arriva il momento, a tavola, in cui qualcuno chiede a Sophie cosa fa nella vita e lei deve rispondere che lavora da un editore di manuali scolastici, be’, parascolastici. Sento che le costa e anche a me piacerebbe di più che potesse dire: faccio la fotografa, o la liutaia, o l’architetto; non necessariamente un mestiere chic o prestigioso, ma un mestiere che hai scelto, un mestiere che fai perché ti piace.

Nel libro Carrère indugia moltissimo, con un eccesso di esibizionismo, nei dettagli della loro vita sessuale. Ma descrive con un’intensità rara le altalene emotive della coppia. La donna diventa protagonista inconsapevole di un racconto commissionato da Le Monde, (uno di quei racconti commissionati d’estate dai grandi quotidiani agli scrittori famosi), che per stessa ammissione dell’autore rappresenta il punto più basso della sua carriera. È un testo performativo che tenta, fallendo miseramente nel dileggio generale, di produrre effetti sul piano della realtà e che sarà pubblicato da Einaudi col titolo Facciamo un gioco. Ma se si può considerare sul piano letterario un esperimento fallito, il racconto svela in modo chiarissimo, perché tenta di metterla in pratica, l’utopia (leggi anche: la megalomania) che ogni scrittore coltiva segretamente nel suo laboratorio: scrivere qualcosa di così potente da cambiare la realtà. Ed è così rivelatorio da mettere a nudo la scrittore non solo sul piano personale, ma anche su quello professionale. E quindi, per quanto lo faccia in modo involontario, è funzionale alla programmatica confessione definitiva che sembra il principale scopo interiore dei suoi libri.

La relazione con Sophie si trascina drammaticamente. La donna tradisce lo scrittore. Rimane incinta di un altro. Poi tenta di fare sembrare le cose in modo diverso. Abortisce. Ma contro ogni apparenza Carrère riconosce che la colpa è principalmente sua.

Basta che un amore sia possibile, sia felice, perché in capo a tre mesi io ne scopra l’impossibilità. Della donna che amo comincio a pensare che non è adatta per me, che mi sono sbagliato, che ci potrebbe essere di meglio altrove, che rinuncio a tutte le altre.

Un atteggiamento di incapacità infantile di amare che l’ovvietà psicoanalitica conduce direttamente al complicato rapporto con sua madre. Una donna fortissima, intelligentissima, integerrima da cui, persino alla soglia della mezza età, lo scrittore cerca approvazione. E di cui, e ancora una volta senza paura del ridicolo, dichiara di essere stato innamorato come di nessun’altra donna mai.

Dopo Sophie, c’è, in Vite che non sono la mia, Hélène, Ma mentre La vita come un romanzo russo iniziava con la speranza, poi fallita, dell’amore, nel libro successivo avviene l’esatto contrario.

La notte prima dell’onda ricordo che io ed Hélène abbiamo parlato di separarci.

È addirittura l’incipit del libro. Una coppia in crisi che per fatalità si trova ad assistere a distanza ravvicinata alla deflagrazione del dolore puro. Due giovani genitori che piangono la figlioletta di quattro anni uccisa da una catastrofe naturale in un’apparentemente tranquilla mattina di vacanza. Una giovane donna che lascia la sua famiglia, il suo amorevole marito, le sue tre piccole figlie, per una malattia incurabile. L’osservazione dei sopravvissuti a queste due morti fa scattare in Carrère la cura alla sua insoddisfazione patologica. E questa cura è un inno alla normalità. Lo scrittore riesce finalmente a vedere in Hélène la donna con cui passare il resto dei suoi giorni. Dopo poco lei rimane incinta. Jeanne, una bambina, è la sua terza figlia.

Ho trascorso un anno a godere del semplice fatto di essere vivo e a guardare nostra figlia crescere. Non avevo idee per il dopo, eppure non mi preoccupavo.

Il dopo, per inciso, sarà scrivere la biografia di Eduard Limonov. Il suo libro più maturo e compiuto.


«Studio», 08.05.2013

Eduard Limonow

Original:

Cristiano de Majo

Psicoanalisi di un testimone

// «Studio» (it),
08.05.2013