»LIMONOW«


von
Emmanuel Carrère



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Limonov di Emmanuel Carrère

Andrea Terenzi

Ci sono libri che ti inseguono senza apparentemente muoversi dagli scaffali nei quali sono riposti in regimentato ordine. Ci sono libri che, senza neppure conoscerti, si prendono libertà che non dovrebbero, libri che, come femmine timide in una disco anni ‘80 di periferia, umida e semibuia, ti seguono con lo sguardo senza volerlo dare a vedere. Uscito sul finire del 2012 per i tipi di Adelphi, «Limonov», biografia sui generis di uno dei personaggi più controversi della letteratura internazionale, ha accompagnato a distanza ogni mia singola incursione in libreria, mi guardava di sottecchi mentre sfogliavo pagine altre, mentre leggevo quarte di copertina, annusavo libri stampati rigorosamente entro il mese in corso. Eppure rimaneva lì, esanime, forse anche placidamente compiaciuto di non essere oggetto di interesse smodato, carne da macello (carta da macero) per classifiche librarie stilate nelle pause caffè da tipette con la frangetta, editor a babbo morto per redazioni controllate amministrativamente.

Dicevo, uscito sul finire del 2012 ma complice una ristampa nella collana «Gli Adelphi» giusto di qualche mese addietro, finalmente me lo ritrovo tra le mani. Lo soppeso, lo rigiro, lo annuso. Sa di piombo e acciaio, ruggine e polvere da sparo. C’è dentro tutta la spaventosa plumbeità del Volga, la miseria lancinante della provincia sovietica, la spietatezza chirurgica di un agente dell’NKVD. Ma anche la New York dei ’70, il punk, David Bowie, i Ramones, Nico e i Velvet Underground, la Parigi della dottrina Mitterand, la ex jugoslavia della mattanza di Srebrenica, la Mosca stuprata dai nuovi oligarchi venuti su come funghi all’indomani della caduta del comunismo. Ma chi è davvero Eduard Limonov? Emmanuel Carrére, scrittore francese dal talento adamantino, ripercorre la vita del romanziere sovietico sin dalla sua nascita nella grigia Char’kov. Figlio di un tetro ufficiale della ceka, Limonov cresce, per compensazione simbolica, nutrendo valori e frequentando marmaglia che il padre vedrebbe volentieri sotto i cingoli di un T-34. E’ un ribelle, iconoclasta, dal temperamento incline al crimine, inizia a frequentare l’underground (quando questo termine aveva ancora un senso) degli spiantati, dei poeti squattrinati, dei delinquenti bohémien. Si appassiona alla letteratura e fa la conoscenza di scrittori vessati dal regime, libri che circolano clandestinamente passando tra le maglie della censura: Bulgakov, Mandelstam, Tsvetaeva, Majakovskij.

Ecco, questa continua tensione tra le due anime dello scrittore, quella sensibile ed incline alla riflessione che lo porterà sin da subito ad assicurarsi una certa credibilità nel circuito letterario sovietico e quella slabbrata e violenta del teppistello di strada, sarà il fil rouge che terrà insieme tutte le 356 pagine di questo romanzo picaresco. Esauritasi l’esperienza moscovita, Eduard e la sua nuova ragazza Tanja si troveranno catapultati nella New York anfetaminica del punk e della no wave. Tra sesso (quasi) estremo e promiscuo, alcool, frequentazioni del jet set russofono, i due si perderanno, si ritroveranno per poi perdersi definitivamente dentro una città tentacolare che non perdona e non ha pietà dei reietti. Sempre in USA, Limonov sarà maggiordomo di un miliardario, circonfuso da un’aura da scrittore maudit, sempre sul crinale tra notorietà e nicchia e di conseguenza stretto da pressanti difficoltà economiche. Il paese della meritocrazia e della democrazia Prêt-à-Porter non ha reso giustizia al genio incompreso, e lui lo maledice, non ne ha più bisogno.

Sarà Parigi la sua nuova casa. In questo frangente della sua esistenza, passa da scrittore noto a scrittore veramente famoso, i giornali di gossip fanno a gara per strappargli un’intervista, si unisce al quotidiano dadaista e diffamatorio «Idiot» frequentato da scrittori «brillanti e rissosi». Lo stile contro le idee, vecchia antifona risalente a Céline. Qui Eduard conosce una seconda giovinezza, fama e qualche soldo, che non guasta. Ma nel frattempo gli eventi lo hanno superato a destra, è il 1989, il comunismo sta per sciogliersi come un ghiacciolo in estate nelle mani di un bimbo troppo ciarliero, e lui non può non presentarsi all’appuntamento con la storia. Fa giusto in tempo a tornare tra le braccia della sua amata madre russia per vederla svenduta, vilipesa e vivisezionata dalla feccia che ora muove le leve del comando. Oligarchi, malavitosi, pezzi di nomenklatura «deviata», sono loro, adesso, le icone sacre alle quali rivolgere preghiere. Schifato da tutto ciò, Limonov se ne va, lascia la sua terra per rincorrere lo Zeitgeist che adesso crede aleggi sulla tragedia che sta per verificarsi nella ex jugoslavia. Conosciuti gli orrori della guerra ed immersosi nel «sacro fuoco purificatore», hegelianamente inteso, di quest’ultima, ne emerge cambiato nel profondo.

Tornato in madrepatria ritiene che sia giunto il momento di non disperdere più energie a zonzo per il mondo, l’articolo 6 della costituzione (quello che prevede un partito unico ed infallibile) viene abrogato e lui ci si butta a pesce. Fonda (con il filosofo Aleksandr Dugin) il partito Nazionalbolscevico (nazbol) una spericolata crasi tra elementi caratteristici dell’estrema sinistra e dell’estrema destra, padri putativi: Hitler, Lenin, Ho Chi Min, Evola, Che Guevara, Jung, Mishima, Lao Tzu, Mussolini, Meister Eckhart, Allende, Gandhi e innumerevoli altri. Con questa conventicola di hoolingans, nostalgici, dadapunk, metallari e situazionisti, si renderà autore di gesti poco più che dimostrativi per arrivare ad un improbabile sequestro della segreteria del Cremlino. Condannato a quattro anni di carcere (poi ridotti a due) per banda armata e terrorismo, trascorrerà tra le sbarre gli anni più intensi e proficui della sua esistenza. Scriverà uno dei libri più belli della sua produzione, «Il Libro dell’Acqua», sarà iniziato alle filosofie orientali da un compagno di cella grazie al quale inizierà la pratica della meditazione che lo porterà ad un’esperienza di «risveglio» e della quale scriverà nei suoi quaderni:»Questo mi aspettavo da me. Ora nessun castigo può toccarmi, perchè saprò trasformarlo in felicità. Uno come me può trarre gioia anche dalla morte. Non tornerò alle emozioni dell’uomo comune».

Soltanto a questo punto, mi accorgo di non aver (quasi) mai menzionato le compagne del nostro, quelle figure femminili borderline che eppure hanno un ruolo fondamentale nell’economia del romanzo e nella vita dello scrittore. Limonov ha amato, a modo suo, ma ha amato: con irruenza, impazienza, sciattagine, profondità, impeto. Dicevo, esce di prigione, e qui apparentemente si perdono le sue tracce, o meglio, si interrompe il romanzo della sua vita.

Oggi Eduard Limonov è un signore di settant’anni dai capelli scarmigliati e il pizzetto alla Trotsky, ha vissuto pericolosamente e senza risparmiare un atomo della sua essenza, vive a Mosca in un modesto bilocale a canone fisso, ci assicura che ha numerose amanti e tutte giovanissime e continua a vedere i figli avuti in circostanze non meglio precisate. Ovviamente la magia di una biografia (ma della letteratura in genere) risiede proprio in questo, ossia nella percezione della portata degli eventi che ne hanno i diretti interessati e noi lettori. Emblematico è l’episodio che fa da chiusa a questo riuscitissimo libro, ossia quando Carrére si presenta nel suo appartamento per chiedergli l’intervista che costituirà il nerbo di tutto il romanzo, Limonov si meraviglia:»E’ strano, però. Perchè vuole scrivere un libro su di me?» domanda.

«Beh» fa l’altro «perchè ha avuto una vita romanzesca, pericolosa, una vita che ha accettato il rischio di calarsi nella storia».

A questo punto lo scrittore sovietico (a me piace chiamarlo così), serafico e con un sorrisetto mefistofelico gela l’intervistatore e tutti noi che per 356 pagine, assieme al protagonista, abbiamo: amato, sparato, gioito, scritto, sorriso, patito il freddo, la fame, ci siamo disperati, vissuto in galera, in un loft a New York, con una frase che rappresenta l’acme di ogni nichilismo possibile, il ku, la separazione del proprio Sè dalle azioni generate in vita e lo congeda con la seguente frase:»già, proprio una bella vita di merda!»


«SwitchMagazine», 22 july 2014

Eduard Limonow

Original:

Andrea Terenzi

Limonov di Emmanuel Carrère

// «SwitchMagazine» (it),
22 july 2014