Viktor Erofeev, Eduard Limonov, Vladimir Sorokin «Russian attack»

Viktor Erofeev, Eduard Limonov, Vladimir Sorokin

Russian attack

/ a cura di Marco Dinelli e Galina Denissova,
traduzioni di Marco Dinelli
// Milano: «Salani Editore», 2010,
paperback, 192 p.,
ISBN: 978-88-6256-277-5,
dimensioni: 205⨉138⨉16 mm

limonka

Viktor Erofeev

. . . . . . . . . .

Eduard Limonov

Coca-cola generation and unemployed leader

Con il Rosso avevamo fissato l'incontro al cimitero. Non osando comprare né dieci biglietti della metro a ventisei franchi e cinquanta, né un biglietto a quattro franchi, da Le Marais arrivai al Cimetière de Passy a piedi. Per ogni evenienza giunsi con una mezz'ora di anticipo. Per ammazzare il tempo (a stare seduti sulla panchina posta sul quadrato di asfalto di fronte al cimetière c'era da congelarsi) entrai all'interno. Stavano ristrutturando la cappella mortuaria di una ragazza di cognome Baškirceva. Dopo aver invidiato le spoglie della Baškirceva, collocate nel centro di Parigi, vicino alla Tour Eiffel, in prossimità di lussuosi quartieri alla moda, ristoranti costosi e musei, uscii dal cimitero e riparandomi dal vento con il bavero del soprabito guardai l'orologio. Restavano ancora dieci minuti. Attraversai l'avenue Paul Doumer chiedendomi se fosse lo stesso Doumer che aveva inventato i famosi proiettili «a esplosione» dum-dum che avevano martoriato così tanta gente oppure no. E di colpo mi ricordai che questo Doumer era morto nel 1932, ucciso da un nostro connazionale, il poeta russo Gorgulov.

Nell'atmosfera accogliente di una decina di vetrine vivamente illuminate una società di architetti proponeva i suoi progetti edili, di arredamento di interni e di ristrutturazione di alloggi, illustrandoli con strabilianti immagini di lavori già eseguiti. Restai particolarmente affascinato da una fotografia a colori, grande quanto la vetrina, che ritraeva una sala rotonda ornata di statue e colonne.

«Ma dove cazzo l'avranno trovata una sala rotonda?» mi chiedevo. «Possibile che costruiscano ancora sale rotonde…?» Tirai fuori le mani dal soprabito e me le sfregai per riscaldarmi.

«Te la stai spassando, vecchio mio?» Il Rosso mi toccò una spalla. «Stai scegliendo lo stile del tuo futuro château

«Senti, Rosso, ma secondo te chi si può permettere il lusso di possedere una sala da pranzo rotonda come questa, con statue e colonne? O questo soggiorno qui…» Spinsi il Rosso verso la vetrina accanto.

«Vecchio mio, in Francia di ricchi ne trovi quanti cazzo ne vuoi. Noi stasera andiamo proprio da gente così. Appena entri lì dentro lo senti subito: c'è una potente puzza di soldi!»

Pronunciò la parola soldi con un lampo negli occhi. Chissà, forse nel momento in cui era passato attraverso l'oblò del motopeschereccio sovietico per tuffarsi nelle acque canadesi gli erano apparsi pacchi di dollari verdi. Forse, seguendo l'odore dei soldi, il Rosso aveva attraversato il Canada, gli Stati Uniti e, alla fine, aveva raggiunto Parigi…

«Vogliamo avviarci, Monsieur Van Gogh?»

«Sì, incamminiamoci con calma» acconsentì il Rosso e guardò l'orologio. «Con molta calma, con passo tranquillo. Nelle case dei ricchi non sta bene arrivare per primi».

Lo sapevo anch'io, che non stava bene. Però avevo bisogno di bere qualcosa di forte. E di mangiare. Nella grigia prospettiva novembrina dell'avenue Doumer si stagliavano imponenti e vividi un bicchiere di whisky e un panino al prosciutto. Formato gigante, sospesi sopra una malinconica pompa di benzina c'erano un whisky color urina, del prosciutto rosa acceso venato di striature bianche di grasso e una foglia d'insalata schiacciata dal corpo sformato di una baguette. Ingoiai la saliva per l'eccitazione. A casa c'era soltanto della minestra in una pentola annerita… Il Rosso mi stava portando a un party di persone ricche. Da una donna che faceva parte del mondo della haute couture. Da una creatrice e produttrice di profumi e bigiotteria. Nonostante avessimo perso una decina di minuti per trovare un posto dove far pipì (arrivare a casa di gente ricca e correre subito al bagno non sta bene), fummo comunque i primi ad arrivare. La domestica, una donna grassotta e di piccola statura che dall'aspetto pareva spagnola o portoghese, ci fece entrare in un ambiente buio e caldo. Togliendomi il soprabito mi guardai attorno e capii che le pareti dell'ingresso erano dipinte di un nero simile a quello delle amarene ucraine troppo mature. Non vedevo le amarene ucraine da un quarto di secolo, ma avevo ancora il ricordo nostalgico di quel colore, eccezionalmente raro. L'ingresso era arredato da credenze alte e massicce. Dai vetri trasparenti delle credenze si vedevano stoviglie e cassettini pieni di bigiotteria.

«Igor'!»

Dal gomito del corridoio spuntò una ragazza bassina con degli straccetti neri addosso. La ragazza, col naso grosso e un ciuffo sulla fronte che era stato accuratamente tinto di biondo, si infilò tra le braccia aperte del Rosso. Mi arrivò la scia di un profumo intenso. Dopo essersi baciati, si sciolsero dall'abbraccio.

«Dorothée, ti presento Edvard, il mon meilleur ami… très grand écrivain…»

Non sopportavo quella maniera che aveva il Rosso di presentare gli amici come très grand artisti o scrittori. L'avevo avvertito più di una volta di non usare nei miei confronti epiteti pomposi, suonavano stupidi. Dorothée mi diede la mano e, dopo un attimo di esitazione, mi porse una guancia. Poi l'altra. A giudicare dall'espressione del viso, era la prima volta che sentiva il mio nome.

«Lei è stato pubblicato in francese?» mi domandò.

«Sì. In Francia sono usciti tre libri».

Il viso della fanciulla si fece più benevolo. Anche con tre libri pubblicati uno può restare lo stesso mascalzone, ladro o assassino che era prima dell'uscita dei libri, ma il semplice fatto di averli pubblicati chissà perché rendeva sempre tutti contenti. Avendo percepito la mia accresciuta importanza riuscii a piazzarle un terzo bacio sull'angolo della bocca.

«Oggi compio vent'anni!» disse Dorothée facendo mezzo passo indietro e afferrando il Rosso per le maniche.

«Quel horror!» esclamò il Rosso e strabuzzò gli occhi. «Quel horror! Perché tua madre non mi ha detto che la festa di oggi era per il tuo compleanno? Non ti ho fatto il regalo. Ti avrei portato un mio quadro. Quel horror!»

«Va benissimo così. Porterai il quadro la prossima volta, quando tomi a trovarci» reagì Dorothée con prontezza.

Il Rosso faceva il pittore da poco. Forse lasciatosi suggestionare da un'ipotetica somiglianza della sua faccia con quella di Van Gogh, aveva preso in mano prima la matita e poi il pennello. In quel periodo fabbricava dei bei lavori, brillanti, appariscenti. I suoi «quadretti», come lui li definiva, si potevano ricondurre a uno stile seminaïf, in ogni caso le numerose conoscenze del Rosso contribuivano alla diffusione delle sue opere nell'ambiente dei ricchi couturier e, miracolo miracolo, ultimamente i suoi quadri venivano acquistati sempre più spesso.

Dorothée ci trascinò dentro l'appartamento perché potessimo munirci di un drink, e strada facendo si vantò di aver invitato alla sua festa settantatré persone.

«Ovviamente ne verranno molte di più… si arriverà a un centinaio… Igor', maman aveva tanta voglia di vederti, ma non si farà viva prima delle undici. Ha un incontro d'affari urgente».

Dopo aver ricevuto dalle mani di Dorothée un bloody mary (il Rosso, che era astemio, sorbiva estasiato l'insipido succo di pomodoro attraverso la cannuccia di plastica), mi presi la libertà di ispezionare il bar. Ahimè, il miraggio sospeso sulla avenue Doumer mi aveva ingannato. Sul tavolo che faceva da bar non c'era nessun prosciutto rosa con il grasso bianco. C'erano molti tipi di noccioline e di patate (maledette patatine fritte, che odiavo dai tempi dell'America!), c'erano olive nere e verdi, e anche vasi e vasetti di salatini, ma niente panini. Non c'era nemmeno del vino! Vodka, succo di pomodoro, una bottiglia di whisky e tantissima Coca-Cola. Sollevando con un piede la lunga tovaglia, scoprii sotto il tavolo altre confezioni della bibita maledetta.

«Vuoi qualcosa da mettere sotto i denti?» chiese il Rosso partecipe, dopo aver seguito il mio sguardo irrequieto.

«Sì, un panino, se ci fosse.» Raccolsi nel cavo della mano una manciata di noccioline e presi a masticarle disgustato, contrastando il sale in eccesso con qualche sorso di bloody mary.

«L'altra volta dopo le dieci hanno servito un piatto caldo». Il Rosso, che mi aveva invitato perché io mangiassi e bevessi, era imbarazzato.

Io annusai l'aria tirando su con il naso. «Non c'è odore di cucinato. Dubito che si mettano a cucinare per cento persone. Rosso, queste sono le nuove generazioni. Vanno avanti a Coca-Cola e noccioline».

Andavano avanti anche grazie alla musica. Nel soggiorno grande, davanti al camino (dalla nostra postazione, addossati al bar, ne avevamo una visuale grazie alle porte spalancate del soggiorno piccolo in cui ci trovavamo) un ampio angolo era occupato da apparecchiature elettroniche guarnite di strumenti con lancette oscillanti e luci colorate lampeggianti. Intorno alle apparecchiature già trafficavano tre ragazzi che stavano provando i loro amplificatori e mixer a spese dei miei timpani e di quelli del Rosso. Mi staccai dal Rosso, mi spostai al centro del soggiorno grande e feci qualche movimento d'anca (continuando a tenere il bicchiere in mano). I giovani intorno alle apparecchiature fecero un «uhm» di approvazione, o almeno così mi parve. Dalle profondità della casa comparve Dorothée in compagnia di due ragazze simili a lei. Un tipo di ragazze che non trovavo interessanti. Facendo scricchiolare il vecchio parquet sotto i piedi si diressero verso il bar. Emettendo risolini, con tutte e sei le gambe rivestite di calze nere, le ragazze si misero a trotterellare intorno al Rosso come ai Giardini del Lussemburgo dei pony intorno all'unico asino. Mi diressi verso di loro, portando a termine, strada facendo, lo svuotamento del bicchiere.

«Eduard?» Dorothée aspettava che continuassi io per lei, che aggiungessi il cognome russo che lei aveva dimenticato.

Io, cortese, lo aggiunsi.

Le ragazze si chiamavano Sylvie e Monique. Sylvie avrebbe potuto essere niente male: blonde, labbra grosse e morbide tra le quali mi immaginai immediatamente (nello stesso modo in cui prima avevo pregustato il panino) di introdurre il mio uccello. Ma aveva le gambe corte, e io non sopporto le gambe corte. E comunque non ero venuto per rimorchiare una ragazza, ma per mangiare e bere gratis. Mi feci un altro bloody mary. Dopo aver detto a ciascuno un paio di frasi benevole l'ospitale padrona, sentendo suonare alla porta, scappò di corsa nell'ingresso. Le ragazze, con un bicchiere di Coca-Cola in mano, stavano vicine e si lanciavano delle occhiate imbarazzate. Bisognava dirgli qualcosa.

«Rosso, chiedigli qualcosa» proposi.

Con un sorriso sfacciato il Rosso osservò che le ragazze non erano della sua età. La sua osservazione corrispondeva a verità. Lui aveva trentadue anni, ma preferiva decisamente le donne di quaranta-cinquant'anni. Non aveva bisogno di corteggiarle. Erano loro a corteggiare il Rosso, lo portavano al ristorante, compravano i suoi quadri, gli compravano dei vestiti e andavano a letto con lui. Comunque il Rosso accondiscese alla mia richiesta.

«Che cosa fai nella vita?» domandò a Monique.

Monique, dalla corporatura pesante, scura di capelli, con le gambe corte come Sylvie, già in nuce la signora sgradevole che sarebbe certamente diventata, disse che aveva intenzione di fare l'attrice.

«Ma guarda che faccia di bronzo! Vorrebbe diventare un'attrice!» mi disse lui in russo. «Edik, guarda che fisico… assomiglia a un hamburger! In confronto a lei noi due siamo degli adoni».

Era piuttosto difficile definire me e lui due esempi di bellezza classica. Ma le numerose donne del Rosso testimoniavano il fatto che lui non era un uomo brutto. Anche le donne che io avevo avuto erano numerose e a volte pure di alto livello. Comunque definire Monique una ragazza brutta mi sembrava esagerato.

«Be'? Servono anche attrici così. Interpreterà ruoli di casalinga. Le hai viste le attrici di oggi, sono tutte insignificanti. Sono volutamente inespressive, somigliano a una qualsiasi ragazza della folla. Prendi chiunque, Valérie Kaprisky, che sembra una contadinotta, o Maruschka Detmers, o quell'altra, come cazzo si chiama, quella nuova…»

«Sophie Marceau» mi suggerì il Rosso.

«Oppure quella che ha recitato in Senza tetto né legge… sembra un'orfanella, una ragazzina cresciuta in strada…»

Stavolta il Rosso non mi venne in aiuto. Si limitava a sorridere, aveva afferrato la mano di Monique e pareva che avesse intenzione di sistemarsela da qualche parte. Se non avessi saputo che al Rosso non interessavano le donne giovani, avrei pensato che stesse per appoggiarsela sulla sommità del cazzo. Monique tirò via la mano e si allontanò risentita.

*

La gente aumentava. Apparvero alcune ragazze, alte e davvero belle, purtroppo accompagnate.

«Io e te sembriamo due froci innamorati» dissi al Rosso. «Va' a scambiare due parole con qualcuno, separiamoci per un po'…»

Risoluto, mi allontanai dal Rosso ed entrai nel soggiorno con il quinto o il sesto bloody mary in mano.

Il Rosso mi aveva portato a una festicciola scolastica. Aveva preso un granchio. Anche se le ragazze erano robuste e avevano il culo grosso, alcuni dei ragazzi avevano un viso veramente infantile, come maialini da latte. Io non ero a disagio, ma il Rosso… Lo cercai con lo sguardo. Se ne stava su un divanetto tutto solo, annoiato, col suo bicchiere di succo di pomodoro in mano. Aveva un'espressione triste. Intorno non c'era neanche una donna della nostra età, per non parlare delle tenere cinquantenni a cui il Rosso dava certamente la sua preferenza. E, non reggendo l'alcol, non poteva neanche rilassarsi bevendo un po'. Poveraccio.

Mi fece pena e tornai da lui.

«A quanto pare, qui siamo i più vecchi» dissi. «Molto più vecchi degli altri».

«Eh sì, vecchio mio. Anche se hanno le cosce grosse, sono tutti bambini. Scusami. È colpa mia. Ti piace l'odore del latte? Le ragazzine odorano di latte materno.»

«Non sopporto nessun tipo di latte, figuriamoci quello materno… Deve essere una vera schifezza. Che facciamo?»

«Io aspetto la mammina di Dorothée fino alle undici. Mi ha promesso di comprare un quadro. Se tarda, me la batto. Domani mattina presto mi tocca andare in prefettura. Tu, se vuoi, resta. Puoi rimorchiare qualcuna e portartela a casa».

Io non avevo fretta di andarmene. Dove vivevo, in una mansarda rosa sotto il tetto, era freddissimo. Probabilmente faceva più caldo nella tomba della Baškirceva. Risparmiavo sull'elettricità e non usavo il chauffage. E non c'era nessuno ad aspettarmi. Però di scopare non mi andava, perché erano passate solo poche ore, mezza giornata, da quando se n'era andata via una ragazza che aveva passato due giorni nel mio letto. Ero persino contento che alla fine se ne fosse andata. Avevo una fame boia. Arrivai davanti al bar e cominciai a mangiarmi le olive nere, le patatine e tutto ciò che mi capitava a tiro. Pure dei biscotti. Come diceva Jean-Marie Le Pen, noi non siamo borghesi da salotto. La mattina seguente volevo mettermi a scrivere un racconto che mi era stato commissionato dalla rivista Gai pied. Bisognava fare in modo che durante la prima metà della giornata il mio stomaco non mi disturbasse. Le ragazze intorno cinguettavano. Le vocine delle ragazze non mi inducevano ad alcun sentimentalismo. Noi non siamo Marcel Proust. In ogni ragazza io vedevo già una futura proprietaria di boutique dalla pelle rugosa o una mammina di famiglia, ben pasciuta, ingrossata nella parte inferiore del piedistallo. Arroganti ingegneresse della publicité e sacerdotesse della contabilità, definita dai miei contemporanei con il termine stupido e pomposo INFORMATIQUE. Mi guardai intorno… Ci fosse stata almeno una futura Mata Hari o una Marlene Dietrich. L'ultima ragazza romantica, Beta Volina, era uscita dalla mia vita quando avevo diciassette anni. Aveva sposato un calciatore che la picchiava ogni volta che la sua squadra perdeva.

«Edvard, Lei deve avere uno stomaco eccezionale» disse Dorothée, comparsa alle mie spalle. «Vorrei presentarle… Bettina…»

Dorothée lasciò che tra di noi si facesse largo una bionda alta e robusta, con una conformazione del corpo un po' più atletica di quella che di solito ha una donna. Avevo le mani occupate dal bloody mary e dalle noccioline, perciò allungai la testa e baciai la guancia che Bettina mi porgeva. Davanti agli occhi mi balenarono delle labbra grandi, leggermente screpolate in alcuni punti.

«… e Rita. Anche loro sono straniere. Di Berlino».

Rita aveva i capelli del colore dei gusci di castagne, e su una narice spuntava la capocchia di una spilla dorata. Pensai a come la spilla potesse reggersi, e come facesse a non schizzar via quando lei arricciava il naso all'improvviso…

«Molto lieto…» dissi.

«Edvard è uno scrittore. Potete parlare con lui in inglese».

Lasciando scivolare via le ragazze dalle sue mani, Dorothée si precipitò ad abbracciare un giovane che somigliava ad Alain Delon ai suoi esordi.

Sollevati in alto dal corsetto rosso fuoco del vestito, i grossi seni bianchi di Bettina erano comodamente posizionati davanti a me. Chissà che urlo avrebbe lanciato, se in quel momento le avessi messo le mani sul seno! Era proprio quello che mi andava di fare. Non scopare, ma toccare. Scuotendo la testa scacciai quegli stupidi pensieri e dissi: «Rita! La sua spilla dorata non salta via quando lei arriccia il naso?»

Le berlinesi si scambiarono un'occhiata, e Rita disse qualcosa a Bettina nella lingua della stirpe germanica.

«No, non cade. E Lei da dove viene, da quale Paese?»

«Dalla Francia».

«No, intendo prima della Francia».

«Dagli Stati Uniti».

«Allora è americano?»

«No. Sono nato in Russia».

Seguì una conversazione che rientra nella categoria di quelle per me meno piacevoli in assoluto. La cosa più difficile era non restare imprigionati nei limiti imposti dalla domanda: «Perché, un non ebreo può forse andarsene dall'URSS?» Tuttavia grazie all'esperienza dei combattimenti passati e alla mia grinta riuscii a sfuggire all'accerchiamento tedesco in tempi piuttosto brevi. Rotto l'accerchiamento, in collera, fui io a porre una domandina di quelle difficili:

«Che si dice di «Front Line» e della RAF?»

«È acqua passata. La politica non interessa più a nessuno. Grazie a Dio non viviamo più negli anni '60» disse Rita.

«Si capisce» feci io con malignità. «Il mondo sta attraversando il periodo digestivo della sua storia. Allora cos'è che va di moda? Il sesso?»

«Col sesso non stupisci più nessuno» disse Bettina scuotendo il seno. «Fanno tutti carriera».

Volevo dirle che se fosse dimagrita anche lei avrebbe potuto fare un bella carriera con quei seni e quel culo, ma non lo feci.

«Negli anni '70 il vostro governo ha fatto fuori tre persone disarmate rinchiuse nelle loro celle dopo un regolare processo. È chiaro che ora i giovani della nuova generazione, spaventati, fanno carriera nella publicité e nella informatique. È fuori di ogni dubbio che quei succhiacazzi abbiano ucciso Andreas Baader e Jan-Carl Raspe e ancora prima abbiano impiccato Ulrike Meinhof… ammettendo pure che una femmina tosta come Ulrike si sia impiccata, non è inverosimile che due detenuti si siano sparati in un carcere high-security

«Non lo sappiamo, eravamo piccole» disse Bettina la vacca a nome di entrambe.

«Quante anni avevate, bambine?»

Non sapevano nemmeno quando si erano verificati quei «suicidi». Gli chiesi quanti anni avessero, e feci io i conti per loro. Rita aveva dodici anni, Bettina undici.

«Perché, lei difende i terroristi?» domandarono le bimbe sussurrando.

Bettina si assunse il ruolo di spokesman.

«Lei ritiene che si possano uccidere donne e bambini?»

«No» dissi, «uccidere donne e bambini è una cosa riprovevole, se le donne e i bambini non sono armati di kalashnikov e granate e non possono difendersi da soli».

«E se sono armati, allora si possono uccidere?»

«Allora sì».

«Lei odia le persone, non è vero?» disse Bettina. Aveva le guance accese.

«Ehi, non ti scaldare» dissi. «Guarda che anch'io se voglio posso pronunciare discorsi nobili… Va be', lasciamo stare. Certo, il sesso non va di moda, è out of fashion, comunque dopo la festa posso invitarvi tutte e due nel mio letto…»

Pronunciai questa frase con leggerezza, come il bad boy di un film americano, ma poi mi resi conto che dopo i due giorni e le due notti con la ragazza francese non ce l'avrei sicuramente fatta con due ragazze tedesche contemporaneamente. Tanto di più con due cavallone come loro. Come avrei potuto farcela, avendo in corpo soltanto olive nere e noccioline?

«Grazie ma ce la caviamo anche da sole, nel nostro letto…»

Se ne andarono con una scrollata di culo. Raggiunsero a fatica il soggiorno grande e si misero accanto al camino, battendo il piede a ritmo della musica e continuando, nonostante tutto, quasi senza volerlo, a lanciarmi di tanto in tanto qualche occhiata. Il gruppo Bill Baxter cantava Embrasse-moi, idiot! (Abbracciami, stupido!), una grintosa canzone da asilo infantile.

Decisi di dargli il colpo di grazia unicamente per il gusto di fargli dispetto. Dopo essermi fatto un altro bloody mary, che, ahimè, dato che la bottiglia era quasi agli sgoccioli, prevedevo essere l'ultimo, mi feci strada verso di loro.

«Avrete sicuramente visto il celebre Hitler, no? Sulla stampa francese ne stanno scrivendo parecchio. Non ricordo il nome del regista, ma si tratta di un documentario. Un film di ben otto ore. Dicono che adesso in Germania c'è un ritorno d'interesse per Hitler. Voi che ne pensate del Führer?»

«Mi vergogno che il mio Paese abbia dato al mondo quel mostro! Povero il mio Paese infelice!» esclamò Bettina. Le sue guance si erano riaccese.

«Non ha alcun motivo di vergognarsi di Hitler. È un atteggiamento irragionevole. Dal punto di vista storico Monsieur Hitler è incomparabilmente più interessante di tutti i giovani e le giovani benpensanti della nuova Germania benpensante. Se a lui e alla sua epoca sarà dedicato un volume intero persino in una breve storia del nostro secolo, al periodo digestivo nel quale io e voi viviamo sarà dedicata non più di una paginetta. Che tra l'altro sarà utilizzata per raccontare le azioni della banda di Baader e dell'Islamic Jihad…»

Presero il volo come due enormi piccioni obesi dei Giardini del Lussemburgo spaventati dallo stivale di un soldato di passaggio. Culi pacifici della Germania pacifica. Finii il bloody mary e posai il bicchiere sul camino. Mi guardai intorno. Gran parte della nuova generazione ballava pacifica, ondeggiando in modo discontinuo e saltellando. Mentre ballavano conversavano amichevolmente e si urlavano qualcosa. Un giovane con gli occhiali e con un ricciolo castano chiaro che gli ricadeva sulla fronte, «uno studente intelligente» come dentro di me lo definii, tentava di tirare per la mano una ragazza alta con una gobba sul naso che indossava una camicetta bianca. Cercava di convincerla di qualcosa, ma di cosa, nonostante i due stessero vicino a me, proprio dietro la mia spalla, non riuscivo a sentirlo. Dalla ragazza mi giungevano nuvole di un odore dolce, un miscuglio di make-up, profumo, rossetto dolce e forse un odore di caramelle. Le caramelle che sgranocchiavo da bambino… Sentii muoversi qualcosa dentro di me, una cosa simile a un pentimento. Per quale ragione mi ero messo a rompere il cazzo a quelle due bestie enormi, pasciute e tranquille parlando di Hitler, di eroi e psicopatici? In quel momento a loro (potevo vederle, stavano accanto al bar, e dietro i loro culi, sul divano, si intravedeva il Rosso impegnato in una conversazione con una ragazza che aveva i capelli raccolti in uno chignon rosso) si erano avvicinati due ragazzi di alta statura. Tutti e due in giacca e jeans. Ognuno dei due più alto di me della lunghezza della mia testa. Ora si sarebbero messi d'accordo e quella notte, nella casa di uno dei due, avrebbero effettuato un sano accoppiamento tra ragazze tedesche e giovani francesi…

*

Mi avvicinai a una ragazza dal viso semplice, da troia di paese, e la invitai a ballare. Mi era sembrato che mi guardasse con simpatia. Facemmo qualche passo di prova e mi sentii subito come nudo, visibile a tutti fino alla piega più riposta della mia pelle. Il mio stile aggressivo-tragico non si conciliava assolutamente con il modo di ballare non solo di quella ragazza in particolare, ma anche di tutta quella folla di giovani pacifici. Attorno a me e alla mia partner si fece subito il vuoto. Chi ballava vicino a noi si faceva da parte. Io mi muovevo in modo grottesco, mi dimenavo, vivevo ora in piccoli e fitti salti, ora in improvvise virate, loro invece ballavano e nel frattempo si parlavano… La mia partner faceva fatica a seguirmi, lo vedevo, faceva fatica e si vergognava. Perché io l'avevo trascinata nel mio stile assurdo, e lei non voleva, era imbarazzata davanti alla folla. Stando insieme a me, lei si vergognava di essere diversa, come lo ero io. Vidi come era sollevata quando il brano arrivò alla fine. Con un sorriso forzato camminò all'indietro, senza voltarsi, per tornare verso la folla, e la folla si richiuse su di lei. Io ballavo bene, perciò l'imbarazzo non riguardava i miei movimenti goffi o inadeguati, no, ero sicuro di saper ballare bene. Nei miei tempi migliori ero riuscito pure a strappare degli applausi. Lei si vergognava di essere come me. E di essere mia complice. Complice di uno che non ballava al ritmo della disco, ma a quello di Shakespeare!

Mi stavo accomiatando con il Rosso che se ne stava andando senza aspettare l'arrivo di Madame Mammina, quando sopra le nostre teste apparve un bel giovane gentile. Molto bello e molto gentile.

«Dorothée mi ha detto che lei è uno scrittore» si rivolse a me.

«Sì» confermai di buon grado, e pensai che magari aveva letto i miei libri.

No, non li aveva letti. Dorothée gli aveva anche detto che il Rosso era un pittore. Si accostò a noi per comunicarci che stava per concludere gli studi presso un istituto professionale specializzato nella preparazione di esperti in publicity. Disse che riteneva che la sua fosse una professione eccezionale ed era lieto di presentarsi a esponenti di professioni, seppur più tradizionali, altrettanto eccezionali. Il giovane aveva una maschera d'importanza cucita sul viso. Anche io e il Rosso facemmo delle facce serie.

«All'inizio di quest'anno accademico sono passato all'indirizzo «video publicity» perché ritengo che negli ultimi tempi la video publicity stia diventando una professione sempre più promettente. In questo campo posso fare molti più soldi di quanti ne potrei fare laureandomi con l'indirizzo che avevo l'anno scorso…»

«Sì» disse il Rosso, «la video publicity è quelque chose!» il Rosso fece schioccare le labbra.

Sapevo che il Rosso sognava di comprarsi una videocamera per fare filmini con donne nude.

«Mmh» appoggiai il Rosso, «lei si è scelto una professione fantastica. Le auguro di fare tanti soldi».

Il giovane sorrise indulgente.

«Non si preoccupi. Farò i miei soldi. Sono ancora molto giovane. Ho soltanto diciannove anni». E ci guardò protettivo, evidentemente provando pena per noi che non avevamo scelto quel suo indirizzo così all'avanguardia e che non avevamo più diciannove anni. Gentile e compiaciuto di sé, si allontanò.

«Che coglione!» disse il Rosso. «Un coglione come pochi. Così giovane, e già così coglione».

«Sì» dissi io, «stupido come un gallo. E con noi è stato pure indulgente, è venuto lui a presentarsi, come da pari a pari, da generale a generale… Rosso, immagini come si comporta con i comuni mortali?»

«Un coglione terrificante!» sintetizzò il Rosso. «Vecchio mio, io vado. Tu rimani pure, e rimorchia una fica, mi raccomando!»

Restai. Decisi di osservarli ancora un po', per raccogliere quel tipo di informazioni che per uno scrittore sono assolutamente indispensabili. Non avevo più dubbi, avevo già formulato in inglese il semplice pensiero «I don't like them». Ma volevo conoscere i dettagli. Capire perché non mi piacessero. Stringendo in mano un bicchiere di whisky (avevo già dato fondo alla vodka) ed essendo consapevole del fatto che mi stavo inesorabilmente ubriacando, osservavo i ragazzi ballare e riflettevo. Prima di tutto, mi concessi una critica illimitata agli uomini nuovi che si stavano muovendo davanti a me. Per quale cazzo di motivo, mi dissi, mi dovrebbero piacere per forza gli uomini nuovi e la loro generazione? Da dove proviene questa venerazione servile di fronte a ogni novità, Edvard? Hai tutto il diritto di non amarli, senza sconti per il fatto che sono giovani! Anche il bambino è una persona, e anche un cittadino di cinque anni è in grado di accendere un fiammifero. Sono tutti responsabili, senza eccezioni… Sono stupidi e privi di ispirazione. Essendoti imbattuto in alcuni di loro, ti sei potuto convincere che per te non sono interessanti. Che sono spaventosamente limitati: le tedesche non volevano parlare di Hitler. Conoscono soltanto una dimensione, selvaggia, semplificata e primitiva: Hitler per loro è un mostro. Forse era un mostro dal punto di vista della morale comune a tutta l'umanità, ma un individuo che ha sventrato a quel modo la vecchia Europa merita interesse… E le altre, quelle stupide galline!… E quel tipo pieno di sé, il futuro sacerdote della publicity

«What do you want from life?» chiesi, masticando un'oliva nera dopo l'altra che prendevo dal vaso posto sul camino, a una ragazza con una ciocca bionda come quella di Dorothée. La massa restante di capelli era nera.

«Cosa?!» gridò più forte della musica.

«Cosa vuoi dalla vita?!» gridai sporgendomi verso l'orecchio della ragazza.

I grossi pori incipriati della sua pelle, come incisi in una lastra di zinco, mi arrivarono addosso all'improvviso.

«Lavori per un istituto di statistica?»

«No. Lavoro per me stesso…»

«Sei ubriaco!» La tipa con la ciocca bionda si ritrasse con una smorfia.

«Embè?» dissi. «Non do fastidio a nessuno…» Poi, evidentemente in segno di protesta, mi tolsi il giubbetto con i pappagalli e lo posai sul ripiano del camino. Come una provocazione, agli occhi della folla si rivelò la mia t-shirt strappata con la scritta «Killers world tournée» sul petto.

«O-ooo! Che eleganza!» disse beffarda Cioccabionda con un gemito.

«È un regalo» spiegai con fierezza. «Doug è un mio amico».

«Doug? Doug chi?»

«Ma sì, Doug, Douglas, il batterista dei Killers, l'ex batterista di Richard Hell…»

«Non so di chi Lei stia parlando, comunque la smetta di importunarmi…» Si ritrasse ancora, ostentatamente. Ritrarsi ulteriormente non poteva, la folla era troppo fitta.

«Importunarla? Non l'ho importunata, pensavo che almeno la musica la conoscesse. Invece no. Non c'è nulla che le interessi…»

«Ça va pas?» domandò, scosse la testa e, girata di fianco, si insinuò nella folla fino a scomparire a poco a poco. L'ultima cosa a sparire fu il viso incipriato e le labbra di un rosso acceso che si contorcevano durante il processo di masticazione delle olive nere. Estrasse un nocciolo e mi fece la linguaccia da lontano.

«Non c'è nulla che li interessi. Non conoscono neanche la propria musica. Conoscono l'asessuato Michael Jackson o Prince, perché è impossibile non conoscerli, te li ficcano in testa con la forza. Come potrebbero conoscere Richard Hell?» Mi tornò in mente che la mia prima traduzione dall'inglese in russo era stata quella dei testi di Lou Reed. Li avevo tradotti dalla rivista High Times. A quel tempo mi interessavano le nuove tendenze musicali. «A me tutto interessa… Stronza con la ciocca bionda!» Conversando in quel modo con me stesso, attraversai la folla per versarmi un'altra dose di whisky.

Dalla mia ultima visita al bar il livello del whisky nella bottiglia non si era abbassato di molto. In compenso c'era una gran quantità di bottiglie vuote di Coca-Cola sparse sul tavolo. Da sotto il tavolo sporgevano un paio di confezioni azzurre di plastica con alcune bottiglie vuote di Coca-Cola dentro. Sono prudenti, si guardano bene dal distruggere il proprio organismo con l'alcol… La loro bevanda è la Coca-Cola. Capii che la loro rettitudine, il loro essere astemi, il loro insano salutismo mi irritavano. Tizie possenti con le cosce e i culi grossi e ometti con la peluria sulle guance sgranocchiavano noccioline e bevevano acquetta dolce come bambini di un asilo nido. Alla loro età, in tempi di guerra e rivoluzioni i ragazzi lanciavano bombe contro i tiranni, comandavano divisioni, sferravano attacchi a cavallo tenendo la sciabola sguainata davanti a sé, e questi invece… Ah, che squallido declino…

Avendo deciso che il whisky in ogni caso a loro non sarebbe servito, mi versai il bicchiere fino all'orlo.

«Ça va, Eduard?» mi chiese passando Dorothée in tono canzonatorio, e senza aspettare una risposta si infilò a fatica nella folla.

«Ça va» dissi a me stesso rispondendo alla sua domanda. «Eduard ça va sempre… Sembra che si stia prendendo una sbornia solenne, ma non è una cosa grave… Eduard attraverserà tutta Parigi a passo di marcia e smaltirà la sbornia nel giro di un'ora mezza. Be', magari non tutta la sbornia, ma mezza sì».

«Che ne pensi di Gheddafi? Do you like him?» sibilai nell'orecchio di Bettina la tedesca, visto che nel farmi strada attraverso la folla mi ero imbattuto nel suo culo di grosso calibro.

La tedesca fece addirittura un salto per la sorpresa e, dandomi una spinta con l'anca, gridò:

«Lasciami in pace!»

«Certo che ti lascio in pace, vacca!» dissi, e tenendo il bicchiere di whisky premurosamente stretto al petto entrai in quel miscuglio di torsi, sederi, colli e gomiti.

«Sick man!» sentii gridarmi dietro.

Il «malato» mi offese. Feci retromarcia e, spingendo da una parte il proprietario di una giacca grigia con cravatta (la testa non la vidi, era posizionata più in alto), mi ritrovai di nuovo davanti al suo sedere possente.

«Sono sanissimo» dissi, e fissai la tedesca con disprezzo. «Il fatto è che io sono un real man. Tu invece, vacca, non potrai mai capire cos'è un vero uomo e per tutta la vita ti accoppierai con i tuoi simili, animali domestici di sesso maschile. In voi non c'è passione! Siete come dei vecchi, evitate nomi e argomenti di discussione pericolosi. E pure le bevande pericolose. Siete dei fucking vegetables!»

«Vedo che Lei, Edvard, al contrario di noi, è tutta la sera che non evita le bevande pericolose» disse severa Dorothée, spuntata fuori come dal nulla. «La prego di non fare scenate in casa mia!»

La musica svanì di colpo, troncando una melodia disco, metallica e priva di carattere. Tutti poterono udire distintamente le ultime parole pronunciate da Dorothée.

«Edvard, penso che sia meglio che tu… che Lei…» si corresse «se ne vada. Ci lasci, la prego, alla nostra pace vegetale!»

«Stupidi piccoli uomini» dissi, «fucking stupidi animali domestici. Avete barattato il piacere della lotta, il piacere più importante della vita, con una sorte tranquilla da animali domestici castrati… Ricordate Goethe: «Merita libertà, merita vita, solamente colui che ogni giorno deve conquistarle con la lotta». Voi non vi meritate la vita e la libertà. Souffrance! Douleur…» feci il verso non so a chi. «Voi avete paura della souffrance e del douleur, vorreste provare soltanto emozioni digestive positive. Digestive generation! Coca-cola, e sai cosa bevi!» cantai, mettendo l'accento sulla «Coca».

«U du iu tink iu ar?!» in un inglese stridulo gridò il più secco dei presenti, un tizio occhialuto di bassa statura, tutto leccato. «Chi sei, un punk? Pensi che abbiamo paura dei tuoi muscoli?»

Mi ricordai che io, con addosso soltanto la t-shirt dei Killers, sì, i muscoli ce li avevo, e si vedevano pure.

«He is Russian!» disse Bettina con indignazione.

«Eduard, la prego di andarsene!» gridò Dorothée, ormai isterica.

«E che succede se non me ne vado?»

«Sarò costretta a chiamare la polizia…»

«No, non abbiamo bisogno della polizia. Ce la caviamo da soli…» Un tizio giovanissimo e pasciuto, allargando le braccia per dividere la folla, si stava facendo strada verso di noi. Sicuramente un atleta universitario. Biondo, stranamente somigliante a James Dean ma gonfiato da una terapia insulinica.

«Vieni, vieni, bel bambino!» dissi, parafrasando un poeta russo che avevo dimenticato. «Avvicinati!» lo chiamai col dito.

Sembrò che la mia accoglienza avesse raffreddato il suo ardore. Comunque sia James Gonfiato Dean si stava avvicinando più lentamente, contando forse sul fatto che le ragazze avrebbero fatto in tempo ad afferrarlo per i bicipiti gridandogli: «Non farlo, Saša!» D'altra parte, me n'ero dimenticato, l'azione si svolgeva in Francia, a Parigi, e non nel villaggio Saltovskij alla periferia di Char'kov. Si capisce, io stavo bluffando, cioè non avevo né coltelli né revolver, e in più sapevo di essere molto ubriaco. Sarebbe bastato prendere la rincorsa e darmi una spinta per atterrarmi. Infilai la mano nella tasca dei pantaloni con aria minacciosa…

Solo più tardi avrei appurato che era stata una tattica sbagliata alla radice. Bisognava andarsene e non insistere. In che cosa speravo? Avevo intenzione di fare a botte con una folla di giovani? E in generale, cosa potrebbe fare un ubriaco circondato da tutte le parti, in mezzo a una folla? Nulla. Ma loro non volevano rischiare. Un corpo contundente, qualcosa di freddo mi colpì sulla nuca da dietro, e vidi sovrapporsi ai visi degli esponenti della digestive generation i grappoli bianchi di un istantaneo fuoco di bengala. Così Andy Warhol imbrattava, schizzandoli di colore, i ritratti di personaggi famosi. Ai grappoli seguirono macchie, bianche pure quelle, che si sovrapponevano l'una all'altra con nauseante lentezza, e poi il buio. Come una casa fatta esplodere con perizia da esperti americani, crollai piano dopo piano. Prima le ginocchia, poi il bacino, il tronco, le braccia, e per ultimo il tetto che ricoprì il tutto.

Quando aprii gli occhi mi resi conto di essere coperto. Dal mio giubbetto con i pappagalli. Ero disteso in mezzo all'erba, l'erba era vecchia ed era fredda, e intorno a me c'era una folla di piante intente a rimirare l'idiota. Forse mi trovavo nell'orto botanico. Poco più in là attraverso il fogliame filtravano schizzi di luce, doveva trattarsi di un lampione. La testa pesava molte volte di più di quanto pesasse abitualmente… Da uomo navigato, mi toccai la testa. Alla faccia e alle orecchie nessun problema. La bocca, le gengive e la lingua funzionavano normalmente. I denti (ci passai la lingua) erano tutti al loro posto. Il braccio destro, nella zona del gomito, doleva un po', ma non troppo. Era la parte posteriore del cranio a preoccuparmi. Mi mossi disordinatamente, riuscii a mettermi a sedere e solo allora mi tastai la nuca. Si era ingrossata. Mi parve quasi di avere due nuche. A giudicare dal grumo denso di capelli appiccicati era evidente che sulla nuca si era formata una crosta di sangue rappreso. In ogni caso passai di nuovo le dita sulla crosta, delicatamente, e sul guscio della testa non rilevai alcuna frattura. E quella era la cosa più importante. Me l'ero cavata con poco. Mi misi a quattro zampe e tentai di recuperare la posizione eretta. Siccome il peso della testa mi faceva perdere l'equilibrio, per rialzarmi mi occorsero diversi minuti. Non tanto per il processo del rialzarsi in sé, infatti i muscoli delle gambe funzionavano regolarmente, quanto per abituarmi a sorreggere una testa nuova, molto più pesante della precedente. Mi rialzai e, appoggiandomi al tronco di un albero di una varietà a me sconosciuta, mi guardai intorno… La boscaglia si estendeva fin dove all'occhio era consentito vedere. «Edvard, un grande cammino comincia da un semplice primo passo» mi dissi in russo, e feci quel primo passo. I soldi per pagare un taxi non li avevo, pensieri sull'esistenza della metro non mi passarono neanche per la testa (a quell'ora di notte sarebbe stato assurdo), quindi non restava che camminare. Lì intorno del mio soprabito non c'era traccia. Dopo una decina di passi attraverso la boscaglia, inaspettatamente vomitai. Poiché erano dieci anni che non vomitavo (a eccezione di quelle poche volte quando di mia volontà mi ero cacciato due dita in gola per sbarazzarmi delle schifezze che avevo ingerito), il fiotto di liquido maleodorante che sgorgò fuori da me all'improvviso e ricadde sulla vecchia erba inviolata mi lasciò allibito.

«Cazzo!» borbottai e, strappata una grossa foglia tardiva, mi pulii la bocca. Mi tirai su la lampo del giubbetto fino alla gola e mi incamminai lentamente verso il lampione…

Allora mi fu chiaro che mi trovavo nel parco che dal Trocadéro scendeva verso il Pont d'Iéna e la Tour Eiffel. Pensai che, spaventati da quanto avevano combinato, quei figli di papà, anime buone, mi avevano portato lì in macchina e mi avevano lasciato nel parco, ricoprendomi persino con il giubbetto. Evidentemente avevano capito che ero vivo. Volevano soltanto sfuggire alle loro responsabilità. Dalla souffrance e dal douleur che gli avrebbe provocato una conversazione con i poliziotti, perché i rappresentanti della legalità avrebbero senza dubbio tentato di sapere il motivo della comparsa nella casa di Dorothée di un uomo con la testa rotta e privo di sensi… Avevo sottovalutato le loro capacità. E avevo pagato per questo. Però io, giustamente, incolpavo me stesso e soltanto me stesso. «Se tu vai in cerca di risse, poi non lamentarti se ti picchiano. E loro ti hanno picchiato, Edvard…»

Mi avviai seguendo la Senna, un punto di riferimento che da lì non si sposta, talmente eloquente che persino un ubriaco con la testa rotta non riuscirebbe a ignorarlo.

Avvicinandomi a Place de la Concorde composi per me stesso una canzone rock in inglese. Perché camminare fosse più divertente. Sfregandomi le mani, camminavo e cantavo allegro:

He looks James Dean
At least what people said
He's nice and sweet
But he is slightly fat…

Di seguito eseguivo l'aria di uno strumento di accompagnamento, forse un pianoforte o una chitarra a una corda, e gridavo il ritornello:

I'm an unemployed leader!
An unemployed leader!
An unemployed leader!

Evidentemente con «leader disoccupato» intendevo me stesso. Non certo il biondo insulinico…

All'altezza del Pont d'Arcole l'alba mi colse di sorpresa. Era freddo, ma bello.

[2002]

La Tana e la Patria

La Russia è innanzi tutto un inverno in bianco e nero. Una distesa bianca su cui, come semi di papavero su una ciambella, sono sparsi gruppetti di alberi morti per nove mesi all'anno. «Perché russo non segato alberi morti?» risuona dalla mia primissima infanzia la voce di un vecchio georgiano giunto per la prima volta in Russia in treno. Dal finestrino di un aereo che vola a bassa quota lo spazio russo è tetro e desolato. Una superficie bianca attraversata dai fili neri delle strade come raschiature di un'unghia su un vetro ghiacciato. Il bianco è il lenzuolo funebre del morto, è la biancheria del malato, è la neve. In ogni caso il bianco non è la vita. La terra non deve essere bianca per nove mesi all'anno (d'accordo, otto!), bianca e gelida, con temperature inferiori allo zero. È contro natura. Il freddo e il bianco sono ripugnanti.

Continuando a volare bassi sul nostro aereo immaginario, passiamo sopra a gruppetti neri di costruzioni: sono villaggi da cui si sollevano sporadiche colonne di fumo. Poi passiamo sopra ad agglomerati più grossi (biancastri, perché costruiti con mattoni grigi o blocchi di cemento grigio) di palazzi: sono piccoli centri abitati. E ancora, passiamo sopra a conglomerati, altrettanto grigi ma più estesi, di più palazzi riuniti insieme che, posti in mezzo a rari gruppi di alberi neri, come spettri dominano lo sfondo di distese innevate: sotto di noi ci sono delle città. Gran parte delle città sono insediamenti piuttosto recenti, risalenti all'epoca sovietica. Questi insediamenti umani graffiati sul bianco hanno un'aria smarrita e inospitale. La Russia centrale, zona con un'alta densità di popolazione, è piena di questi graffi sul paesaggio. Gli uni si avvinghiano agli altri, si accalcano eccitati lungo il filo della ferrovia. Se l'aereo vola di sera e se non ci sono nubi, si possono vedere le luci deboli e fumose che emanano i gruppetti di edifici: con luci così non si scaldano né le mani né il cuore. E allora si capisce perché i russi siano così attratti da Mosca. Per il russo che viene dalla provincia la città di Mosca, una delle meno illuminate al mondo, anche in confronto ai capoluoghi regionali russi è come un fascio di luce, una fiaccola. I capoluoghi sono di solito città di trecento, quattrocentomila abitanti che, a loro volta, a quei viandanti provenienti da città in cui non c'è neanche una stazione ferroviaria paiono capitali illuminate a giorno.

La natura, tirchia, dà alla Russia poca luce e ancor meno sole. C'è soltanto la neve che riflette un cielo sporco, grigio e coperto di nubi. L'estate, breve, di tre settimane o poco più, polverosa e afosa, è schiacciata fra un maggio freddo e un autunno piovigginoso che spesso sopraggiunge già alla fine di luglio. A causa della mancanza di luce la pelle delle nostre donne è pallida e bianca come i germogli delle patate conservate nel buio degli scantinati e mollicce, fiacche le anime dei nostri uomini sempre pronti a frignare. I nostri figli vengono concepiti nel clima artificiale degli appartamenti. Come in un'incubatrice si gonfiano in fretta, lievitano a vista d'occhio accanto a termosifoni bollenti, giocano in ambienti sovraffollati, diventano adulti non in libertà, all'aria aperta, ma rinchiusi in quella specie di voliere per uomini. Il modo in cui vengono allevati è analogo a quello impiegato dagli olandesi o da altri popoli per l'allevamento intensivo di galline o maiali o mucche: con il metodo cosiddetto «in batteria». È quando l'animale se ne sta compresso nella sua gabbia e assume il cibo trasportato da un nastro che scorre lentamente, di continuo, accanto a lui. Così, senza mai uscire per farsi una passeggiata all'aria aperta, aumenta rapidamente di peso. Gli escrementi vengono rimossi dalla gabbia da un altro nastro trasportatore. L'animale ha zampe deboli, fuori uso. Ma ha addosso molta carne.

Il paesaggio russo è noioso. A guardarlo si sente la stessa ripugnanza che si proverebbe nel guardare una donnetta scrofolosa con le trecce piene di pidocchi. Lo scopo del paesaggio russo è quello di essere l'avamposto del maggior numero possibile di palazzi. I russi, con le loro famiglie, alloggiano nelle gabbie di questi alveari di cemento circondati dalla neve, tra i propri armadi, gabinetti, divani e fornelli come animali in batteria. In sostanza a ciascuno di loro tocca in sorte uno spazio non molto maggiore di quello concesso ai detenuti. Un letto, un comodino, alcuni effetti personali… Si potrebbe dire che i russi si riproducono e vivono in batteria. A causa del freddo ognuno dispone soltanto di uno spazio ridotto. Sebbene si vantino della vastità del loro gelido Paese, sono deprivati dello spazio.

La Russia è in primo luogo i quartieri dormitorio delle grandi città. Quegli stessi agglomerati di palazzoni grigi di cemento che abbiamo appena sorvolato. Gli accessi a questi palazzi sono chiusi da porte sporche, sventrate e tagliuzzate. Chissà perché i russi per indicare l'accesso allo spazio interno di un palazzo usano l'assurdo termine pod'ezd, sebbene il pod'ezd sia propriamente un territorio attiguo al palazzo, la via d'accesso attraverso cui un mezzo di trasporto si avvicina al palazzo. Il pod'ezd come è inteso dai russi corrisponde a ciò che in inglese viene detto hall o hallway, e in francese, con una traduzione meno letterale ma più precisa, escalier, cioè scala. Che indica tutto il complesso di scale, compreso l'accesso agli appartamenti. Perciò noi russi non abbiamo neanche un termine per definire quello spazio che è all'interno di un palazzo, ma che non è l'appartamento.

Generalmente i palazzi, addossati gli uni agli altri o a sé stanti, sono sparsi su distese di neve come fogli di un libro mostruoso. È il libro della nazione russa, artificiale come i germogli delle patate conservate negli scantinati. Il fatto è che l'uomo non è nato per vivere a queste latitudini nevose. Ha fatto male a stabilircisi, si è spinto troppo a nord, troppo lontano. Di qui la presenza dell'artificiale, dell'anormale nella psicologia russa. Siamo incubati, artefatti, molto prima dell'avvento della clonazione. Nel corso di tutta la nostra storia non abbiamo fatto altro che lottare contro una natura ostile, contro il paesaggio per la distruzione del paesaggio.

La Russia è il paese degli appartamenti. Per un appartamento qui si arriva a uccidere. L'appartamento è il luogo in cui il cittadino russo feconda le uova della sua femmina, nutre i suoi figli, il luogo in cui si svolge l'intera vita. L'appartamento è il suo paese artificiale. Il cittadino medio russo, in tal modo, non cresce all'aria aperta, in libertà, ma in batteria. La civiltà russa è una civiltà dell'appartamento, della vita in batteria.

Nell'appartamento dei russi c'è pochissima luce. Certo, ce n'è poca anche nella natura circostante i palazzi di cemento. C'è solo il cielo grigio: un riflesso sulla neve sporca della città. Ma i russi cercano addirittura di proteggersi dalla luce: mettono le tende alle finestre e, come per sottolineare il proprio odio nei confronti della realtà esterna, molti arrivano a metterne addirittura due strati. Se la casa ha un balcone o un terrazzo, questo, incorporato nell'appartamento, è immancabilmente chiuso da infissi e vetrate. Un locale aggiuntivo che allontana ancor di più il proprietario dalla luce diurna. Negli appartamenti russi domina la penombra degli harem musulmani. Quando sia nata la tradizione di stendere sul pavimento degli appartamenti russi uno o più tappeti non è noto. Ci sono tappeti pure alle pareti, sopra i letti. Più una casa è agiata (benestante), maggiore è il numero di tappeti sul pavimento e alle pareti. Se a ciò si aggiunge l'amore dei russi per le pantofole, per i calzoni delle tute da ginnastica stile odalisca e per i paralumi di stoffa con nappe, è facile intuire, comprendere più a fondo quale sia l'origine dei russi. I russi, che tanto si vantano della loro pelle bianca, hanno abitudini e tradizioni turche. È in questa atmosfera turca che scorre l'angusta vita della famiglia russa. Neonati avvolti in fasce rancide si tramutano in bambine dai corpi bianchi e bambini dalla volontà debole. Non conoscono il paesaggio oppure non riescono a sentirlo come proprio. Coloro che sono stati cresciuti entro quattro mura non hanno il senso dello spazio. Non hanno un concetto carnale di Patria, di una Patria da vedere e da toccare. In un certo senso non hanno una Patria. La loro Patria è lo spazio delle fessure tra il letto, l'armadio, il tappeto, i gravi corpi di papà e mamma. Invece per gli abitanti della Repubblica Moldava di Pridnestrovie, o della Serbia, o della Cecenia, o dell'Abcasia la Patria è le strade e le colonne di fumo che si levano dalle case del villaggio, le montagne vicine, i boschi, gli animali, i giardini, la casa dove sono nati con le finestre che si affacciano su un paesaggio unico e irripetibile, che appartiene a loro; la Patria sono i vicini, cioè gli abitanti del villaggio, ognuno diverso dall'altro, ognuno originale a suo modo. Un bambino dei quartieri dormitorio non ha una Patria vera e propria, una gabbia in un palazzo di cemento non può suscitare in lui un sentimento patriottico. È sintomatico che in Kombat, una canzone piuttosto bella del gruppo Ljube, la Patria dei ragazzi russi è formulata nel modo seguente: «Ci siamo noi a difendere la Russia, Mosca e l'Arbat». Cioè la Patria è un posto dove bazzicano i giovani, la strada dei souvenir costeggiata da orrende, gracili villette dell''800. Altre patrie non esistono. La Patria non può essere una crosta ghiacciata devastata dai bulldozer per costruirci sopra nuovi quartieri, una crosta di terra scorticata, ricoperta a malapena di qualche erbaccia. In Russia le «pietre sacre», gli edifici antichi sono tristemente pochi. Il tanto osannato Cremlino, come una Disneyland, è un corpo estraneo nella vita russa. Non ha particolari legami con il resto della Russia e neanche con Mosca. È la Patria del governo, come un castello abitato da visitatori extraterrestri, ma non è la Patria dei ragazzi russi. La Patria è il tuo pezzo di terra speciale, dove hai trascorso l'infanzia, in seguito te ne sei allontanato e ora vivi in una Patria più ampia. Ecco, questa prima Patria dell'infanzia i russi non ce l'hanno. Per questo gli abcasi, i serbi, gli ucraini e i moldavi di Pridnestrovie e gli armeni del Nagornyj Karabach hanno difeso con le armi le proprie case, vere, umane, con alberi e giardini. I russi invece no, non hanno preso in mano le armi per difendere le proprie tane, i loro gelidi appartamenti. Li hanno ceduti agli oligarchi. Anche della Patria grande, più ampia, i russi non possiedono che una piccola parte. A scuola, sui manuali di storia, i russi imparano che esisteva un popolo, quello degli slavi, gente dalla pelle bianca e dai capelli biondi e rossi, e guardano le illustrazioni, realizzate apposta per i manuali scolastici da qualche artista del '900 (se non dell''800), che li ritraggono. Indossano camicioni lunghi, ai piedi una specie di scarpe di fibre intrecciate, in mano tengono una lancia o roba simile, come archi e frecce. I manuali russi non fanno che lodarli, questi slavi: sarebbero valorosi nobili e leali. Nello stesso identico modo ogni manuale nazionale loda la propria nazione: i tedeschi lodano la Germania, gli inglesi l'Inghilterra, gli italiani l'Italia. Rispetto ad altre nazioni gli italiani, con tutta l'abbondanza di monumenti storici che gli è toccata in sorte, hanno un motivo in più per lodarsi. Gli slavi potrebbero vantarsi giusto del bellicoso Svjatoslav I di Kiev, il principe guerriero che combatté e fece razzia nei territori oggi appartenenti alla Grecia. Comunque sia, è difficile sentire il proprio legame con gli slavi rappresentati nei manuali standosene in un quartiere dormitorio. La propria appartenenza agli slavi si può forse comprendere soltanto attraverso la lingua: gli altri slavi, come i cechi, gli slovacchi, i serbi parlano lingue fra loro simili. Oggigiorno tra gli slavi si manifesta una comunanza soltanto a livello linguistico. Per il resto questi popoli dimostrano di essere acerrimi nemici l'uno dell'altro. I croati hanno massacrato i serbi in modo così crudele che persino i tedeschi ne sono stati nauseati, gli ucraini non digeriscono i russi, per non parlare poi dei polacchi che a quanto pare non ci perdoneranno mai il fatto di avergli imposto, negli ultimi duecento anni circa, il nostro potere statale.

Quello che i russi sanno del passato lo traggono dai libri (quando li leggono). Dalla vita quotidiana non è possibile ricavare nulla che sia degno di considerazione. Il popolo semplice ricorda male le date e non ci vorrà molto perché si dimentichi persino quella della Vittoria sulla Germania. E se, andando a ritroso, ci si spinge oltre il 1945, a parte la data del 7 novembre 1917 che d'altronde già ora non tutti ricordano, i russi non hanno punti di riferimento. La memoria infantile del popolo non è in grado di trattenere ciò che nel periodo dell'infanzia le viene insegnato a scuola (e cioè quella storia che già di per sé forse non è molto attendibile). Troppo forte è la concorrenza della miriade di personaggi del cinema e della musica che campeggiano sugli schermi televisivi: i Suvorov, i Kutuzov o gli Ivan il Terribile, emersi fugacemente una, due, tre volte dalle pagine dei manuali, vengono ricacciati dagli Schwarzenegger, dagli Stallone o dai Van Damme nel mare grigio dell'alfabeto chiamato «cirillico». I manuali sono monotoni. Schwarzenegger invece appare spesso in televisione. Perciò anche la Patria grande dei russi non se la passa troppo bene. Essa è in gran parte frutto del libero gioco dell'immaginazione.

È anche la cultura a far sì che un popolo si identifichi in una Patria comune. Se questa è la regola, anche la Russia dovrebbe rispecchiarsi nella cultura russa. Per lungo tempo è stato così, ma ora non più. Di tutta la cultura russa, l'unico personaggio ad arrivare alle grandi masse è Puškin. Il pigro governo degli anni '90 si è aggrappato con entusiasmo alla formula «Puškin è il nostro tutto» e ha cominciato a nutrire le masse con Puškin. Oltretutto questo Puškin, cosa per i russi scandalosa, era, anche se solo in parte, un negro, e pure un possidente, un nobile. Il popolo sa che Puškin era innamorato di una fanciulla dal corpo candido, Natal'ja Gončarova, figlia di un possidente, che da lei ebbe dei figli e che fu ucciso in un duello da un francese. Puškin scrisse un gran numero di quartine per i calendari. Le quartine che gli riuscivano meglio erano quelle dedicate all'inverno (a che altro, sennò?) L'inverno infatti è la caratteristica principale della Russia. L'inverno è la Russia. Il disagio del freddo Puškin lo sopportava meglio degli altri russi perché aveva ereditato dai suoi antenati africani un temperamento solare. In più, essendo un possidente, poteva esimersi dal partecipare all'inverno, si limitava a guardarlo dalla finestra della camera: «Gelo e sole! Mirabile giornata! E tu ancora sonnecchi, adorabile amica!» (qui il poeta aveva spostato lo sguardo sulla sua consorte sedicenne, la fanciulla dal corpo candido). Oppure un'altra quartina, più tipica: «Inverno, il contadino, esultando, riprende la sua slitta…» Puškin non era costretto ad alzarsi dal letto, il contadino invece esultava perché il fango che rendeva le strade impraticabili si era ghiacciato e gli permetteva finalmente di usare la slitta. Il cavallo avrebbe faticato di meno, e il contadino non avrebbe dovuto tirar fuori ogni volta le ruote del carro dal fango fino a sfiancarsi.

Puškin lo mettono in bocca a tutti, a chi vuole e a chi no. Anche se ormai risulta irrimediabilmente inattuale. I ragazzi russi, uscendo dal portone di un palazzo ricoperto di graffiti, di scritte oscene del tipo «Morte ai giudei e ai Teletubbies», si ritrovano in uno spazio pubblico che è lontano da Puškin come il pianeta Nettuno dalla Terra.

Altri esponenti della cultura russa sono poco noti ai loro contemporanei. Le generazioni di russi vissuti in epoca sovietica avevano l'abitudine, un po' meccanica ma comunque nobile, di collezionare libri e di disporli negli scaffali delle loro case. Una parte della popolazione è stata in grado di accumulare una discreta quantità di volumi e autori. I più attivi acquistavano le opere complete dei «classici». Stipate negli scaffali, impacchettate con cura in tomi di colori kasher c'erano le opere di Tolstoj, Čechov, Gončarov, Turgenev e di altri letterati minori. Oggi quegli scaffali appartengono ai nipoti dei collezionisti (i nipoti, come fanno gli americani, cominciano via via a buttarli). Prima erano appartenuti ai figli. Ma anche allora i figli dei collezionisti non erano lettori assidui di Tolstoj, Čechov, Gončarov o Turgenev. Per il semplice motivo che leggerli richiede molto tempo e fatica. Inoltre sono le condizioni sociali, le collisioni esistenziali descritte dai «classici» a non essere più attuali. Nella vita russa reale quegli eventi e quelle collisioni non esistono più. Certo, è possibile leggere i libri dei classici come favole simboliche. Ma a che prò? Numerose opere del periodo sovietico, i vari Lontano da Mosca, Cemento, Calcestruzzo, La betulla bianca e simili, non possono non suscitare perplessità, se a leggerle è una persona nata negli anni '80. Le collisioni sovietiche e le condizioni sociali che provocavano quelle collisioni sono tanto lontane dalla realtà attuale quanto lo è Puškin, appartenente alla nobiltà del tempo. Gli individui descritti in quei libri sono estremamente ingenui, commoventi o bugiardi, personaggi che ormai appartengono a un altro mondo. Si tratta per giunta di libri solitamente privi di valore letterario, talmente kitsch che leggerli è possibile soltanto se uno ha voglia di farsi quattro risate (ci sono, si capisce, alcuni libri di autori classici e sovietici, soltanto alcuni, che sono sopravvissuti al loro tempo, ma si tratta di opere particolarmente ispirate). In ultima analisi si può affermare che la popolazione russa non possiede neanche una cultura che renda possibile la sua identificazione in una Patria comune. Sebbene i testi del passato si leggano senza difficoltà, dal punto di vista sociale sono incomprensibili, come i geroglifici egiziani. Le parole sono intelligibili, ma il significato dei testi resta oscuro. Basti pensare a una cosa come la «competizione socialista» sulla produttività del lavoro sovietico. E perché poi ai tempi di Turgenev quello smidollato e posatore di Bazarov (non è neanche riuscito a farsi la Odincova) era considerato un duro?

Insomma la Patria è qualcosa di sfuggente, qualcosa che per i russi sta scomparendo definitivamente (forse oggi la Patria è la televisione?). Ciò che è certo è che la loro Piccola Patria è una tana in un quartiere dormitorio. Una parete, un letto, un po' di metri quadri. Sotto il regime sovietico gli appartamenti venivano «dati». In Russia una persona senza appartamento è condannata a una morte per assideramento. Lo Stato dava un appartamento soltanto ai bravi cittadini. Ai cittadini laboriosi, remissivi. A chi teneva a freno la lingua. Erano loro che, nel nostro clima freddo, avevano diritto al sesso, ai balli e al videoregistratore. Sembrerebbe che ora il regime sia cambiato, e infatti oggi un appartamento lo si può comprare. Ma pare che lo Stato sia intenzionato a porre la questione in questi termini: i soldi li possono guadagnare solo i cittadini ubbidienti, remissivi, che si comportano bene. I bravi cittadini.

Io non ho avuto la mia tana. Ma lo Stato mi ha gentilmente fornito una branda in un monumento architettonico del '700: il carcere di Lefortovo.

[2003]

Russian Psycho

È ragionevole supporre che sulla superficie del globo terrestre le varie tribù occupassero determinate regioni e non altre non per una semplice casualità, come se il Signore le avesse fatte cadere col paracadute, questa in Lapponia, quest'altra in Madagascar. La disposizione delle tribù sul pianeta (indipendentemente da quale sia l'origine dell'uomo) è il risultato di una guerra generalizzata e reciproca delle tribù. Di una lotta generalizzata su decine, centinaia di fronti. Ad alcuni sono toccate le regioni centrali fra il 30° e il 50° grado di latitudine nord (è noto che proprio lì nel centro, in presenza di un clima temperato né torrido né glaciale, è stata creata la maggior parte dei capolavori della cultura umana), ad altri il caldo malsano, infuocato dell'equatore o il gelo del nord. Quando le tribù andavano a rifugiarsi nei boschi e nelle paludi del nord non lo facevano di loro spontanea volontà, ma ritirandosi sotto l'impeto dei nemici. Per salvarsi, essendo più deboli, dai nemici. E coloro che andavano a rifugiarsi nell'orribile tundra del nord per salvarsi a loro volta dalle tribù dei boschi erano i più deboli di tutti. Supporre che il Signore (o l'Esplosione Primordiale) abbia creato una razza a parte di persone per ogni zona climatica sarebbe troppo spudorato, troppo antropocentrico. Senza dubbio tutti quanti loro si rubavano impietosamente lo spazio a vicenda, sgomitavano l'uno contro l'altro e combattevano, finché finalmente un giorno non si assestarono «congelandosi» nella posizione in cui si trovavano. Ognuno col proprio paesaggio e col proprio clima. E restano a lungo così. Sempre. E sia i paesaggi che i climi finiscono per formare la psiche di ciascuno.

L'elemento predominante della psiche russa è una fosca nebbiosità e paludosità, crepuscolarità e «piagnucolosità» (cioè emotività). Evidentemente nei russi ci sono molti geni ugrofinnici ereditati da tribù composte da uomini di bassa statura, indolenti, deboli e pallidi per la carenza di sole nei boschi. Per questo ai russi piace il cartone animato Il piccolo riccio nella nebbia, perché contiene in abbondanza muco, umidezza, palude, tracce di umidità vegetale, da quella dei funghi fino all'odore dei tronchi di betulla. La betulla è un albero mucoso, liquido, è, come gli ugrofinnici della Carelia, un abitante del nord. È proprio perché l'essenza della psiche russa è questo riccio nella nebbia che i russi restano impressionati da Puškin, dotato di una psiche opposta. Puškin proviene dall'Africa luminosa, sabbiosa, cotta dal sole. Se la sua pelle di sigaro amalgamandosi con i geni russi è diventata appena un po' più grigia, la sua psiche potente, facendosi strada tra quei geni, è riuscita a venire alla luce. La sua psiche è chiara come i contorni di un paesaggio asciutto in una giornata assolata. Puškin è sempre nitido nelle sue formulazioni. Gli uomini delle paludi lo adorano proprio per quel modo di vedere quell'umore, quella concezione della vita che in loro è assente (e anche se talvolta è presente non è mai predominante). Un russo non sarebbe mai capace di scrivere: «Gelo e sole! Che giornata meravigliosa!» Di mattina è capace soltanto di emettere gemiti sordi, raccogliere il catarro in gola e sputacchiare. È il comportamento tipico delle tribù che si nascondevano nei boschi e nelle paludi per scappare dai nomadi, popolo selvaggio e valoroso. Si svegliavano, e giù a scatarrare. Puškin non è il solo a non rappresentare la psiche russa (e questo è il motivo del suo successo tra i russi). C'è anche il giovane Gogol'. Un Gogol' in erba giunto dall'Ucraina, la Piccola Russia, nel 1828, diciannovenne, giunto dal sud, dal Sole, non passato ancora attraverso il Dipartimento dell'Economia di Stato e degli immobili pubblici né attraverso il Dipartimento dei Beni patrimoniali nella Pietroburgo ugrofinnica, il Gogol' dalla psiche meridionale. Nella prima e nella seconda parte delle Veglie della fattoria di Dikan'ka, uscite quando Gogol' aveva intorno ai ventidue, ventitré anni, non è possibile rinvenire alcun legame con le paludi finniche, e lo stesso si può dire del racconto, straordinario, intitolato Taras Bul'ba. Gogol', sotto l'influsso delle nebbie pietroburghesi e dei Dipartimenti, si ammalerà della malattia finnica più tardi, verso i ventisei anni, quando, dopo le raccolte Arabeschi e Mirgorod, comincerà a scrivere Le anime morte; il giovane Gogol' invece è pieno di sole, la sua psiche conserva la calura meridiana dell'Ucraina, la stessa che scaturisce dalla punta della sua penna. Sono entrambi meridionali, sia Puškin che il giovane Gogol' (niente muschio o nebbiosità), e per questo toccano così a fondo il cuore dei russi. Come gli zigani. Nonostante l'apparente diversità tra l'amore per Puškin e per i personaggi della fattoria di Dikan'ka da una parte e quello per gli zigani e per i loro canti infuocati dall'altra, si tratta in realtà del medesimo fenomeno. È l'amore per l'opposto della propria natura (russa, umidiccia, nebbiosa), l'amore per la meridionalità. I russi sono taciturni, cupi, meteoropatici, gli zigani invece sono spregiudicati e focosi, hanno da sempre il sole disciolto nel sangue. Cosa gliene importa del tempo atmosferico! Puškin e il giovane Gogol' sono gli zigani della letteratura russa.

In seguito la meridionalità di Gogol' sarà spazzata via dal vento ugro-pietroburghese proveniente dal fiume Neva, dal golfo, dai paesi che sanno d'aringa, quelli nebbiosi e umidi del bacino scandinavo, e dal nord cupo e paludoso. Per quanto cercasse rifugio in Italia (qualcuno si stupisce, perché proprio in Italia: ma per Gogol' l'Italia era l'infanzia e il caldo della Piccola Russia, la sua Italia era il ventre materno, ed è per questo che scappando dalla Russia finnica fu proprio lì che si andò a rifugiare), per quanto tentasse di nascondersi dentro mamma Italia, il vento finnico d'aringa lo portò alla morte. Lo fregò, il vento finnico. Ah, Gogol', Gogol'! Ecco perché la notte tra l'11 e il 12 febbraio 1852 se ne stava assurdamente sdraiato sul letto con gli stivali e la vestaglia. Era estenuato dalla lotta con le «anime morte» che avevano soffocato la sua psiche meridionale. Immaginatevi la scena! La vestaglia e gli stivali ai piedi nudi, quei capelli lisci come fili di muco e i baffetti. E quel ragazzino, Saša, a cui Gogol' fece bruciare i rotoli manoscritti delle Anime morte. E quegli undici capitoli del secondo volume che non volevano ardere. D'altronde sarebbe stato opportuno bruciare anche il primo volume. Il Gogol'-zigano e il Gogol'-italiano bruciarono il Gogol'-ugro dal sangue debole che si era insidiato in lui. Centocinquant'anni dopo o forse anche meno gli americani avrebbero girato alcuni film sui body snatchers, i rapitori di corpi. Le anime morte è un libro mostruoso. È l'opera più sgradevole non solo della letteratura russa, ma di quella mondiale. Davvero, rifletteteci, cosa può esserci di più ripugnante dei personaggi che popolano Le anime morte, di questi fantasmi deliranti dai cognomi più disgustosi, scelti volutamente tra i più disgustosi? Cosa può esserci di più immondo del cognome Nozdrev («Narici»)? Solo il cognome Korobočka («Scatolina»). Quei personaggi non sono persone, ma demoni. Ma se questi demoni assomigliano ai russi, i russi qualche domanda dovrebbero incominciare a farsela…

Pietro I era indubbiamente uno zar riformista. È stato lui, senza dubbio, a dotarci di una, come diremmo oggi, «tecnologia occidentale» in campo statale e militare ed è, senza dubbio, grazie a lui se abbiamo vinto tutte le guerre, almeno fino a quella conclusasi nel 1945. Tuttavia questo zar «rivoluzionario» ha compiuto pure un'altra rivoluzione, di gran lunga più terribile. Ha operato la psiche russa; non ha soltanto costruito una capitale europea sulla palude degli Ugri: ha tagliato senza pietà, e non solo le barbe, ha inciso nel vivo della carne. Ha cucito tra loro pezzi di carne sanguinolenta, senza preoccuparsi molto se fossero adatti l'uno all'altro, se potesse esservi o no rigetto.

Guardate il Cremlino di Mosca, le sue mura di antica costruzione. Nelle parti non restaurate i mattoni hanno il colore della carne scura, carne di cavallo, equina. Se questo colore sia stato scelto consapevolmente o no, non ci è dato saperlo. Ma se anche fosse un caso, se questa tonalità fosse soltanto piaciuta a qualcuno, resta il fatto che con quel colore doveva esserci una sorta di affinità spirituale. La chiesa di San Basilio, eretta in occasione della presa di Kazan', è stata edificata utilizzando, come diremmo oggi, motivi ornamentali di origine tartara. Le cupole sono identiche a quelle tartare: se ci si mette più in basso della chiesa, sul Vasil'evskij spusk, si è sovrastati dalle cupole a cipolla di una moschea. Si ritiene comunemente che tra il tempio di San Basilio e l'architettura orientale delle moschee vi sia uno stretto legame. In realtà, però, la credenza che il tempio sia stato edificato imitando i minareti di Kazan' (la città appena conquistata) è assolutamente infondata. Il fatto è che ai tempi della presa di Kazan' noi eravamo Oriente. Eravamo indistinguibili dai tartari e dai turchi, eravamo affini a loro. Lo eravamo allora e lo siamo stati anche in seguito, per lungo tempo (e continuiamo ad esserlo persino oggi). Per gli abiti, per le armi, per l'architettura, per la consuetudine di portare la barba, per il modo di vivere. E per l'abitudine domestica di confinare la donna nel terem, l'harem russo. E per l'arredo dei locali. I nostri baldi giovani portavano stivali con la punta rivolta all'insù, abiti ricamati con fiori e disegni, pellicce e berretti di pelliccia abbinati a stoffe damascate. Pietro I ci ha strappato via dall'Oriente, ci ha fatto indossare un abito tedesco e ci ha costretto a bere alcolici, proprio come oggi in Turchia lo stato laico costringe i musulmani a bere. Le Assemblee degli ubriachi di Pietro I non erano affatto uno sfrenato passatempo del sovrano ma un consapevole innesto della tradizione alcolica nell'Oriente. Prima di Pietro I eravamo fratelli carnali dei turchi e dei tartari.

I russi non sono mai stati Europa. Tutti gli obelischi di pietra al confine tra Europa e Asia vanno tolti: sono manifestazioni puerili e vanagloriose. L'Europa terminava con il confine germanico allora e termina con il confine germanico oggi. Un Paese veramente semiasiatico è stata sempre la Polonia. È stata crocifissa e lo è tuttora nel punto in cui si incrociano due civiltà: l'Europa e l'Asia. In questo senso i polacchi sono ancora meno naturali di noi. La geografia da sola può servire soltanto in parte a fornire una spiegazione. Quando l'America del Nord fu conquistata dall'intraprendente marmaglia europea, l'America diventò una continuazione dell'Europa, la sua space colony, e anche se veniva chiamata America era sempre Europa. Se un domani i francesi venissero conquistati pacificamente dai musulmani a causa dello schiacciante livello di natalità di questi ultimi, la Francia diventerebbe Africa del Nord (come alcuni quartieri di Parigi, in particolare quello intorno alla via Goutte d'Or: è un quartiere arabo, è Africa del Nord). Sono tre secoli che la Russia gioca al ballo in maschera. Indossando striminziti abitini tedeschi al posto di vestaglie e calzoni ugrofinnici. Il travestirsi indossando abiti altrui non è cosa innocente: non è un caso se nelle rappresentazioni teatrali dell'antichità il travestimento è sempre fonte di sconvolgimenti sociali, siano essi rappresentati in chiave comica o tragica. Lo stesso accade quando vengono costruite città in luoghi paludosi da una tribù che non è predestinata all'edificazione di simili città. La conseguenza è che la psiche nazionale subisce una deformazione. Nel cinema americano esiste un tema metafisico che di tanto in tanto viene sfruttato dai creatori di Hollywood: il tema della vendetta delle divinità e degli idoli indiani contro l'America bianca ed europea portatrice di distruzione. In una certa misura gli eventi dell'11 settembre 2001 rappresentano il sinistro inverarsi di quella profezia. Non c'è nulla di strano in questo, i creatori di Hollywood sono degli animali dotati di buon fiuto. Realizzano opere volutamente scadenti per necessità commerciale, ma la loro percezione è più sottile di quanto sembri.

La psiche malata degli Stati Uniti, il senso di colpa per il genocidio dei nativi americani, ricacciato ben in profondità, nella zona subcorticale, scuote il mondo con le esplosioni malate che si sono viste in Iugoslavia e in Afghanistan. Gli americani sono irrequieti e folli, sono stati capaci di violare tutte le leggi della comunità umana. Hanno una psiche pericolosa, molto violent.

Scena prima: l'interno di un appartamento. Finestre malridotte, nascoste dietro file di tende logore. Su uno sgabello è seduta una creatura dal seguente aspetto: «esso» è panciuto, indossa un vestito, metà accappatoio metà camicia militare con la spallina con i gradi mezza rotta. Un piede gonfio infilato in una vecchia ciabatta, l'altro dentro uno stivale. Lì accanto c'è pure una scarpa. Laddove è scoperta una porzione di pelle nuda, e cioè sui polsi, sulle mani, sul collo e sul viso si vedono protuberanze di grasso. Il viso: per metà maschile, per metà femminile, tra il rabbioso e l'apatico. «Esso» brontola sordamente ed emette versi di insoddisfazione, schiocchi con le labbra come un bambino, ringhi. «Esso» è l'anima russa, la psiche russa. La mentalità russa, se si potesse immaginare la mentalità incarnata in un corpo. (Non è giusto! De Custine! Gogol'! — sbraiterà il lettore, cittadino fedele della Patria — sono i cuscini sui quali «esso» dorme. Va be', sbraita pure!)

Scena seconda. Avviluppato in strisce di grasso di un ripugnante colore giallo cadaverico, tutto pieno di vene azzurrognole e color sangue marroncino nei punti in cui il grasso giallo è assente, grosso, dai contorni simili a quelli di un cuore, batte qualcosa, una specie di organo, nascosto negli anfratti di cespugli fetidi. Nei pressi dei binari di una ferrovia locale. Dalla COSA si dipartono vasi venosi, carnosi, di colore azzurrognolo, che si perdono nel verde polveroso. I vasi fremono e sussultano a ogni spasmo del liquido che scorre in essi. Gli spasmi si susseguono come scosse. La cosa è forse un cuore enorme, o forse uno stomaco, o più probabilmente qualcosa a metà fra i due che sobbalza all'afflusso di pezzi di cibo marcio o al riflusso di grumi di vecchio sangue putrefatto misto ad alcol. La psiche russa la vedo così. Perché? Perché l'ho vista.

I francesi chiamano il Sud della Francia «Midi», che si traduce sia come «metà», sia come «mezzogiorno». La Francia del sud, la Provence, è davvero il Paese del mezzogiorno. Si ha l'impressione che lì il sole stia sempre allo zenit. È quando non ci sono quasi mai ombre. E infatti in Provenza le ombre appaiono soltanto verso sera. Sebbene tale osservazione non sia esatta da un punto di vista astronomico, lo è da un punto di vista fattuale, e da un punto di vista romantico. In Provenza, nel «Midi», viene voglia di aprire la bocca, respirare come un cane felice, e con un cappello bagnato sul capo dipingere un paesaggio per la centomillesima volta: la montagna Sainte-Victoire a mezzogiorno (una volta, nel 1980, mi capitò di passare un po' di tempo ai piedi della montagna Sainte-Victoire, e pure sopra di essa, a mezzogiorno. Faccio notare per inciso che sarei potuto diventare un ottimo pittore post-impressionista: mi piace sbronzarmi e so come farlo senza correre il rischio di trasformarmi troppo presto in un alcolizzato. Avrei vissuto allegramente, sempre in compagnia di giovani modelle di nudo. Avrei raccolto i soldi dei turisti in un barattolo di latta. Uno dei copioni della mia vita rimasto irrealizzato). La psiche del «Midi», del Paese del mezzogiorno, è l'esatto contrario della psiche russa. La psiche del «Midi» è pienezza di vita, pietre roventi, ombre serali di un blu denso. Questa pienezza, intensità, presenza, focosità è tutt'altra cosa rispetto al paludoso riccio nella nebbia. Ma a noi non è capitata quella terra, perché abbiamo una psiche diversa. Quella che sta nei cespugli vicino alle stazioni, scossa dagli spasmi…

Già all'inizio della mia trattazione ho spiegato che la disposizione attuale delle tribù sul pianeta è il risultato di un «congelamento» avvenuto molto tempo fa. Certo, anche in seguito ci sono state discussioni sulle frontiere, ma sono molte centinaia di anni che gli Evenki vivono nella loro tundra innevata, gli Aleuti abitano le loro terre e i russi si accalcano sulla pianura delle terre nere e lì si ubriacano indolenti. Ed è chiaro che sono stati proprio i luoghi in cui i popoli hanno trascorso centinaia di anni a formare in misura maggiore la psiche nazionale. L'hanno formata tanto i contorni dei paesaggi quanto il clima. Vedere ogni giorno al proprio risveglio la pianura o le montagne, la pioggia o il sole non è la stessa cosa. Una persona che apre gli occhi sul mondo dal golfo di Napoli, sotto la colata verticale del sole, possiede un temperamento opposto a quello di una persona nata sotto il cielo incolore del Mar Bianco. Durante le molte centinaia di anni che i popoli hanno trascorso nei luoghi nativi la psiche nazionale è stata formata anche dal cibo. Riso e pesce quotidiani per decine di generazioni creano una razza di persone poco robuste, pallide, testarde, che rifuggono dagli eccessi. Una volta il mio superiore, un americano di nome Peter Sprague, in risposta alla mia domanda sul perché gli americani fossero tutti così enormi mi disse semplicemente: «Una bistecca a pranzo mangiata quotidianamente da tre generazioni di seguito crea una razza di gente robusta. È semplice, Eduard! Da voi, in Russia, si mangia poca carne!» Sempre nello stesso periodo, quando vivevo a New York, scoprii il segreto di come venivano fabbricati i giganteschi negri americani. Oltre alla ricetta, conosciuta in Russia, delle classi sociali, cioè quella della sopravvivenza in base alla selezione naturale nelle dure condizioni di lavoro nelle piantagioni, risultò essercene un'altra: le premurose madri negre nutrono i figli con il loro piatto forte, zampe di maiale con le fave. Non c'è dubbio che anche la tragica abitudine del consumo smodato di alcol per molte generazioni di seguito crei minorati e scherzi della natura.

Anche il potere, la forma di governo adottata da una data nazione è in rapporto diretto con la formazione della psiche nazionale. I russi hanno trascorso più di quattrocento anni nella condizione di servi della gleba: cioè nel corso di numerose generazioni la maggioranza dei russi non è stata libera. È difficile determinare il numero esatto di coloro che erano privi di libertà, però è noto che liberi erano soltanto i nobili, gli esponenti del clero e i cosacchi autonomi. I cosacchi, tra l'altro, hanno tutte le ragioni di guardare dall'alto in basso gli altri russi: i loro antenati erano liberi. Questo spiega la prepotenza e il carattere indipendente che si manifestano tuttora nel loro comportamento. Ricordiamo che, finché non fu limitato nei diritti dalla Russia imperiale, l'autogoverno cosacco aveva una vocazione repubblicana. I loro capi, gli atamani, venivano eletti da un'assemblea generale di uomini maggiorenni che potevano portare le armi. E, allo stesso modo, le decisioni più importanti venivano prese dall'assemblea mediante votazione. Per una strana ironia della sorte i cosacchi repubblicani aiutarono gli zar a tenere in schiavitù i loro connazionali, però capeggiarono anche le più grandi rivolte popolari contro gli zar: Bulavin, Bolotnikov, Razin e Pugačev erano tutti cosacchi. Sempre per ironia della sorte nel periodo della rivoluzione i bolscevichi sterminarono un gran numero di discendenti diretti dei cosacchi, di nobili feudatari e di repubblicani cosacchi.

Esistevano numerosi tipi di servitù della gleba: i villaggi con tutti i loro abitanti potevano appartenere tanto ai nobili possidenti quanto allo zar, a monasteri o fabbriche. Ma indipendentemente dai padroni e dalla forma di asservimento il giogo della schiavitù ha lasciato profonde cicatrici, ha menomato e amputato senza pietà la psiche russa. Il carattere dei rapporti esistenti oggi tra datore di lavoro e operaio, superiore e dipendente, soldato e ufficiale, donna e uomo, padre e figli e, soprattutto, il carattere dei rapporti tra potere e cittadini l'abbiamo ereditato in gran parte dall'epoca della servitù della gleba. Basta osservare con quanta alterigia si comportano i nostri presidenti in carica per rendersi conto che non vedono in noi dei concittadini ma dei sudditi che possono venire giustiziati oppure graziati a seconda di un loro capriccio. In alcuni miei libri ho introdotto e sviluppato il concetto di «adat russo», cioè l'insieme delle tradizioni e dei costumi (antichissimi, antichi e passati) della vita russa. In analogia con i costumi dell'adat (i costumi degli antenati) e le leggi della shariah (la legge del Corano) esistenti parallelamente nel mondo musulmano, ho affermato che in Russia l'adat si è dimostrato più saldo e più forte del potere zarista, del capitalismo, del socialismo e dell'ortodossia. La Russia vive secondo l'adat, inchinandosi soltanto temporaneamente di fronte a nuove leggi mondane.

L'adat russo è una parte della psiche russa. Delle altre parti, del clima, della geografia, del paesaggio, e del temperamento della nazione che ne deriva ho già scritto sopra.

[2004]

Accuse contro Putin

Il 14 dicembre 2004 trentanove attivisti del Partito nazional-bolscevico sono entrati nell'anticamera generale dell'Amministrazione del Presidente della Federazione Russa e, occupando uno degli uffici, hanno chiesto un incontro con il presidente Putin. Il volantino distribuito dai manifestanti riportava il testo che segue.

Appello al Presidente della Federazione Russa V.V. Putin

UN PRESIDENTE COSÌ NON CI SERVE!

Signor Presidente, abbiamo accumulato una lunga serie di rivendicazioni nei suoi confronti. Lei ha sulla coscienza:

1. La falsificazione sia delle elezioni della Duma che di quelle presidenziali.

2. L'aver privato i cittadini russi dei loro diritti elettorali: dalle elezioni dei governatori si è passati alla loro nomina. Questo è un colpo di stato, la distruzione dello Stato federale.

3. L'aver derubato i cittadini attraverso la «monetizzazione delle agevolazioni». Solo gli ingenui credono alla favola sui due malfattori disubbidienti, Zurabov e Gref. Lo sappiamo con certezza: nello Stato della Federazione Russa nulla può accadere senza una Sua decisione. Con i prezzi attuali del petrolio le agevolazioni potevano non solo non essere abolite, ma essere addirittura raddoppiate o triplicate.

4. La comparsa di basi militari americane in Asia Centrale. È stato Lei a permetterlo, dopo i noti eventi dell'11 settembre 2001. In tal modo Lei cerca di accattivarsi le simpatie degli Stati Uniti.

5. La cessione alla Cina dei territori russi. Trentacinque anni fa in battaglie sanguinose le nostre guardie di frontiera hanno difeso le isole dell'Estremo Oriente. A giudicare dalle Sue dichiarazioni, ha intenzione di fare lo stesso riguardo alle isole Curili. E al camerata Schröder, cosa daremo, Kaliningrad?

6. L'amicizia con il mostruoso regime di Turkmenbashi, colui che ha espulso i russi dalla Turkmenia.

7. La chiusura dei canali televisivi indipendenti. Grazie a Lei la televisione ha cessato di mostrare la verità e mente quotidianamente al popolo.

8. L'inetta interferenza nelle elezioni in Abcasia e in Ucraina. Era difficile rovinare i rapporti con l'amichevole popolo abcaso, ma Lei ci è riuscito. L'Ucraina invece, grazie ai Suoi sforzi, è sull'orlo della disgregazione e della guerra civile.

9. Le vittime del «Nord-Ost» e di Beslan. Non esiste alcun «terrorismo internazionale», esiste la guerra cecena. Che Lei non ha saputo vincere, e che ora non ha il coraggio di interrompere. Confessi la verità: questa guerra non viene combattuta per gli interessi della nazione ma per il suo indice di gradimento personale, per rafforzare la Sua reputazione di «duro».

10. La ripresa delle repressioni politiche in Russia. I nazional-bolscevichi Gromov, Tišin, Globa-Michajlenko, Bespalov, Koršunskij, Ežov e Klenov, colpevoli di aver protestato contro le ruberie compiute ai danni del popolo, sono prigionieri politici. Vittime dell'arbitrio politico sono anche coloro che, come il fisico Danilov e l'avvocato Trepaškin, sono stati puniti per il loro comportamento indipendente.

Le nostre rivendicazioni nei Suoi confronti non si esauriscono qui, ma già queste sono sufficienti. A quanto pare, Lei si crede uno zar e non un presidente eletto dal popolo e responsabile di fronte al popolo. Ha dimenticato le parole di giuramento che ha pronunciato all'atto del suo insediamento: «Giuro di rispettare e tutelare i diritti e le libertà della persona e del cittadino, di osservare e difendere la Costituzione della Federazione Russa, di difendere la sovranità e l'indipendenza, la sicurezza e l'integrità dello Stato, di servire fedelmente il popolo».

Forse Lei agisce così non per cattiva volontà, ma soltanto perché è privo di talento politico. A maggior ragione, allora, deve trovare in sé il coraggio di dimettersi. Prima lo farà, meglio sarà per la Russia.

I nazional-bolscevichi.

[2005]

Estraneo e Malvagio

La stesura di questo ritratto di Putin risale al 2000, poco tempo dopo la sua elezione a presidente.

Estraneo

Il capo ideale non è soltanto capo dello Stato, è il primo uomo della nazione da cui prendere esempio. Josif Stalin, con la sua pipa, i baffi, gli stivali, la giubba di foggia militaresca, con le sue maniere insinuanti, i suoi modi non frettolosi, con la sua forte inflessione georgiana (spesso un'inflessione nella pronuncia conferisce alle frasi un senso nascosto, capovolto) dava un assetto a tutti i Paesi dell'URSS: li disciplinava e li spaventava stringendoli nella morsa del terrore. Davvero, in un leader tutto è importante, dalla forma delle unghie ai bottoni, e niente è casuale. Anche se la storia non menziona gli image makers di Mussolini, Stalin o Hitler, in realtà questi grandi caratteri hanno elaborato da soli il proprio stile o, come si dice oggi, la propria immagine. Erano semplicemente degli originali di natura.

Anche se Eltsin verrà sempre associato dalla Storia alla schiera dei cattivi capi del popolo, aveva comunque un carattere ben riconoscibile, di chiara derivazione popolare. Il suo comportamento da ubriaco fuori di testa, il suo dispotismo incontrollabile, la sua rudezza di alto dignitario del Partito, visti col senno del poi non erano privi di un certo fascino. Talvolta si sente la mancanza della sua presenza malefica nell'ambiente asettico del governo di Putin. Dopo aver compiuto l'ultimo atto da despota, quando cioè ha messo uno sconosciuto (Putin) al potere, Eltsin è uscito di scena, e ora starà da qualche parte, in una delle sue dacie, a gemere e sputacchiare, scatarrare e ubriacarsi. Cosa faccia attualmente non ci è dato saperlo. Putin invece è molto atipico per la Russia. Come se fosse stato sintetizzato in laboratorio. Si ha come l'impressione che sia venuto al mondo in seguito a un'inseminazione artificiale, da un padre ignoto e una madre fertile. In lui c'è così poco di individuale ma, stranamente, non ha nulla del tipo popolare. Non rappresenta nessuno degli archetipi popolari a noi conosciuti. È evidente che non si tratta del despota-dignitario del Partito, certamente non è il tipo dell'operaio e, chiaramente, neppure quello del contadino. È stato tenente colonnello ma non assomiglia a un ufficiale. Il tipo dell'ufficiale era quello incarnato da Lebed' e Rochlin, Šamanov o Trošev. Putin potrebbe passare per un intellettuale, un professore non universitario, di un istituto tecnico, un insegnante di una materia come la chimica, per esempio. Ma così com'è, a sé stante, estraneo, tra i professori sarebbe un rinnegato e un reietto. Lo chiamerebbero sicuramente «l'uomo nell'astuccio» oppure «cartasuga» ed eviterebbero di frequentarlo.

Certo, Putin è giunto alla leadership dello Stato per una casualità che ha dell'inaudito. Senza l'ultimo atto di dispotismo incontrollabile di Eltsin, Putin, così com'è, a sé stante, estraneo, non sarebbe mai stato eletto. La sorte, in questa occasione, gli ha tenuto bordone. Tanto per cominciare, Putin, ufficiale fallito dei servizi segreti all'estero ormai a riposo, è stato recuperato dal filoccidentale Sobčak, sindaco di San Pietroburgo, che l'ha assunto nel suo staff. E qui Putin ha dimostrato il suo talento di uomo-fermacarte, di uomo-cartellina. Quanto lui adorasse il lavoro d'ufficio lo si è potuto vedere in seguito, nei primi mesi del suo mandato di primo ministro, quando si è reso accessibile al nostro sguardo quotidiano attraverso la televisione. Lo si è potuto vedere dalla delicatezza con cui teneva la sua cartellina, stretta al fianco o addirittura al petto. Più tardi la cartellina sarebbe scomparsa, ma a quel punto ci era già tutto chiaro.

Il valore principale di Putin consiste nella sua capacità esecutiva di burocrate. In Russia, Paese pieno di gente disorganizzata, impulsiva e inaffidabile, i burocrati sono una ricchezza. È questo il motivo per cui dopo il fallimento della carriera di Sobčak Putin è stato immediamente riciclato da Pal Palyč Borodin: tipi così, con le cartelline, bisogna tenerseli stretti. In più Putin, che non beveva, non fumava e non amava fare la sauna in compagnia di maschi «alcolicizzati», in mezzo a una folla di dirigenti rotti a qualsiasi vizio doveva apparire come una specie di superuomo. Tramite Borodin Putin è arrivato a Eltsin. Ha cominciato a lavorare per il presidente. E alla fine Eltsin, già vecchio, ha scelto proprio lui, l'uomo-cartella, come erede al trono. Ha scelto il suo esatto opposto proprio per le qualità che nello stesso Eltsin, il despota incontrollabile, erano totalmente assenti. Così ora siamo governati da un uomo-cartellina, da una specie di scialba segretaria.

Nel nuovo presidente della Russia si avverte un non so che di femminilmente triste. O, per meglio dire, l'insufficienza della componente maschile. A differenza di Eltsin, vecchio stallone che solo la vodka teneva lontano dalle donne, V.V. Putin è un tipo completamente asessuato, privo di sensualità. Nonostante le sue frasi minacciose sui terroristi da scovare e far fuori nei cessi, l'impressione che dà è quella di essere timido come una ragazzina. A formare tale impressione, oltre all'aspetto esile, contribuisce anche la voce. Né ruggiti da macho come quelli di Eltsin o di Lebed', né, per dire, la vischiosità vellutata di uno Julio Iglesias. Qualunque cosa dica la sua voce è sempre uniforme, straniata, acuta, priva di emozioni. Soltanto le ripetizioni retoriche (alla Kirienko) e i toni sopra le righe ravvivano un po' il suo eloquio. Alla televisione Putin non manifesta alcun interesse per le donne. È sterilmente impassibile. Certo, trattandosi di un capo di Stato non ci si può aspettare che si metta a correr dietro a ogni gonna davanti alle telecamere. Però avrebbe già dovuto da tempo tradire un sorriso particolare o l'indugiare di uno sguardo. Avrebbe dovuto mostrare un qualche interesse. No, certo, non verso Valentina Matvienko, ma almeno verso qualche avvenente comparsa presente a uno dei tanti ricevimenti, o durante una delle sue sciate. Qualcosa sarebbe dovuto trapelare. L'intimorito Clinton, ancora oggi, in presenza di una gonnella si ringalluzzisce all'istante, lo si vede dal luccichio del naso e degli occhi, lo si vede dai gesti. A Putin non capita nulla di tutto ciò. Persino gli sci lo entusiasmano più delle donne. L'otto marzo, trovandosi nella cittadina di Ivanovo, attorniato dai corpi pachidermici di signore benemerite da cento chili l'una, Putin pareva un ragazzino, umanamente toccato dall'attenzione di quelle creature, commosso a tal punto da mettersi a parlare di una cosa privata come la sua andatura ondeggiante. Ma anche in una scena come quella, nonostante in secondo piano balenassero altre creature, non di cento chili e dotate di un indubbio sex-appeal, non c'era ombra di sesso. Con la sua voce flebile, col suo essere fuori dal comune, impassibile e incapace di esprimere emozioni (anche quando vorrebbe dare l'impressione di esprimerle), Putin, l'esile biondino, non può certo rappresentare un modello (come lo sono stati invece Mussolini, Stalin o Churchill per il loro tempo) per la società russa. In Russia gli operai hanno il loro modello, gli intellettuali hanno Javlinskij, e tra i funzionari dello Stato la moda è ancora quella in auge ai tempi del partito comunista: peso di più di cento chili, completo maschile grigio, monolitico, pancia in fuori, muso più largo delle spalle. I funzionari dello Stato non possono certo trasformarsi in piccoli biondini, esili e graziosi. Sono sicuro che molti di loro guardano Putin con tristezza malinconica, e pensano (come dice una canzone alla moda):

Il mio superiore non beve e non fuma,
ma sarebbe meglio che bevesse e fumasse.

Sì, sarebbe meglio. Infatti se la popolazione vedesse un qualche vizio maschile di Putin (se fosse per esempio un dongiovanni), vedrebbe anche la sua umanità. Così invece resta irrimediabilmente estraneo. Votandolo, decine di milioni di elettori hanno dovuto superare la loro repulsione naturale per il «diverso».

Questo fa comprendere quanto mostruoso sia il potere della nostra televisione. In Russia la televisione è centinaia di volte più potente dell'ortodossia e di tutto il cristianesimo.

Putin non ha abbinato alla propria persona una camicia particolare, una pipa, degli stivali, una pettinatura o smorfie particolari. Se si parla di qualità caratteristiche, il nuovo leader del Paese ne è assolutamente privo. Gli interni del Cremlino, tutte quelle sedioline poggiate su gambe esili, i sofà e i divanetti gli sono stati lasciati in eredità da Eltsin, da Pavel Borodin e dall'albanese Behgjet Pacolli. Da coloro cioè che si sono occupati della ristrutturazione degli interni del Cremlino. Putin non manifesta preferenze per cravatte particolari, o per giacche di cotone invece che di lana. Sterilità totale anche in ciò che si definisce look.

In Russia, in compenso, si stanno facendo progressi nel campo della retorica e della demagogia. Già Eltsin aveva cominciato a utilizzare, accanto a quella democratica, una fraseologia nazionalistica. «Baby face» Kirienko e suoi «giovani turchi» hanno fatto un passo in avanti in questa direzione dandosi il nome di «Unione delle forze di destra» e facendo leva sugli «interessi dello Stato». Anche Putin ha continuato a muoversi nella stessa direzione. Il suo partito di governo si chiama «Russia unita», e di recente è stato proprio Putin a ripetere quasi alla lettera l'appello goebbelsiano «Un solo Paese, un solo popolo». Pur mancando il terzo elemento, «Un solo führer», non è difficile indovinare quali siano i testi fondamentali che l'ufficiale Putin ha letto in lingua originale durante la sua permanenza nella Repubblica Democratica Tedesca. Lo stile di governo di Putin, basato sulla cronaca televisiva di ogni suo movimento, è mutuato dall'Occidente. Pur vedendolo quotidianamente a cerimonie varie, inaugurazioni di convegni, visite alle truppe, non lo sentiamo più vicino. Anzi, la cerimonia di insediamento, ambiziosa e ridicola, come una messa in scena allestita dal regista monarchico Nikita Michalkov (e chissà se non sia andata proprio così) è apparsa come qualcosa di barbaro, di estraneo. Ma anche la cerimonia è la conferma dello stesso processo paradossale: pur restando «riformatore» e pretendendo di definirsi «democratico», ogni nuovo regime della Federazione Russa non fa che aumentare la dose di demagogia nazionalistica e di gesti connotati in tal senso.

Con la voce impassibile del ragazzino di città cresciuto in una famiglia tranquilla (ragazzini così fino ai dieci anni li mandano in giro vestiti da bambina) Vladimir Vladimirovič Putin dagli schermi televisivi diffonde quotidianamente banalità patriottiche che ormai persino il giornale Zavtra («Domani») si vergogna a pubblicare. Di Putin ce n'è già troppo. Pare che le masse non si pentano ancora di aver eletto a presidente una persona a loro totalmente estranea, a sé stante. Intanto gli affari dello Stato Russo non vanno affatto bene. Il Paese presto «celebrerà» il primo triste anniversario dell'inizio della seconda guerra cecena, ed è evidente che la Russia, cacciatasi in questo brutto affare di sangue, non ne uscirà tanto facilmente. Per il resto la condizione del Paese non è diversa da quella sotto Eltsin. La situazione della nostra economia invece dipende dal prezzo del petrolio e di altre fonti energetiche, e dalle facilitazioni concesse dall'Occidente sul pagamento dei nostri debiti. Putin è stato paragonato a una scatola nera. Cioè sarebbe un enigma. No, V.V. Putin è la persona meno enigmatica della Russia. Putin è l'assenza di una presenza. Un burocrate triste, solo e sterile. Un segretario zelante provvisto di bloc-notes. Gli servirebbe un superiore di talento.

Il mio superiore non beve e non fuma,
Sarebbe meglio che bevesse e fumasse.

L'aspetto del presidente

Quanto scritto sopra era la trascrizione delle mie impressioni del 2000. Ed ecco quelle del 2005.

Molto basso. Si potrebbe definire un uomo piccolo. Di un colore slavato, nord russo finlandese. Capelli visibilmente fini, cocuzzolo calvo. Il mento è assente. La fisiognomica più grossolana sostiene che l'assenza di mento denota mancanza di volontà. Non penso che sia sempre così. È evidente che a causa dell'assenza di mento il profilo di Vladimir Vladimirovič non è dei migliori, con il naso in avanti e la fronte e il mento spioventi in direzione opposta. La bocca larga, il naso di forma allungata. La punta del naso si espande fino ad assumere la forma di un trifoglio. Negli ultimi anni, evidentemente per la stanchezza, ha gli occhi cerchiati.

Tutto il piccolo corpo di Putin non è convincente né significativo. Famoso per essere uno sportivo, nonostante pratichi il judo e lo sci alpino il presidente ha una visibile pancetta. Le gambe corte. Le spalle strette. Il presidente indossa completi confezionati con estrema premura, in modo tale che gli rivestano accuratamente il petto. (Nicola I indossava un corsetto che gli schiacciava la pancia. Quando il marchese De Custine scrisse sull'argomento, questo offese l'imperatore più di tutte le accuse di dispotismo).

Conversando di argomenti per lui spiacevoli, Putin serra la mandibola. All'altezza degli zigomi si vedono affiorare i muscoli contratti della mascella. Il contenuto dei discorsi del presidente è banale. La voce è uniforme, in essa raramente si avverte un'emozione. Solo una chiarezza monotona, nella voce.

La moglie del presidente è sovrappeso, e ciò la rende più vecchia e matriarcale. Sembra un'anatra, e il presidente, vicino a lei, più che altro un anatroccolo. È impossibile adorare o amare attivamente la signora Putin come accade con le first lady di alcuni Paesi in cui vige una forma di governo presidenziale, o come accadeva con Raisa Gorbačeva. È chiaro che non stiamo parlando di Jacqueline Kennedy, e neppure di Laura Bush. Una comune donnetta sovietica con zero charme. Dopo averci riflettuto un po', devo ammettere che il presidente ha lo charme del figlio minore, benché adulto, della famiglia. Anche se non è affatto un tipo popolaresco. Eltsin, per quanto ripugnante, senza dubbio lo era.

Un padre cattivo

Non è poco il tempo che ho perso stando attaccato al televisore per studiare il viso della persona che governa la Russia. È un viso sfuggente, uno sguardo sfuggente che non desidera incontrare nessun altro sguardo. Uno sguardo che non desidera incontrare i nostri sguardi popolareschi. Appena se ne presenta l'occasione, lui distoglie lo sguardo. Osservatelo anche voi. Forse non è sicuro di sé, oppure non vuole guardarci. No, non me e voi concretamente, si capisce: la telecamera. Ma la telecamera siamo noi.

Con la medesima attenzione lo ascolto parlare, ascolto il suo eloquio per capire se è incespicante oppure scorrevole. Scorre in modo uniforme, il più delle volte senza intonazioni particolari. Solo a volte Putin si permette di inciampare in uno slancio emotivo che di solito reprime con abilità. Accade quando si arrabbia, quando è adirato. È allora che all'altezza degli zigomi si vedono affiorare i muscoli contratti della mascella. Si nota allora ciò che con un'espressione letteraria viene definito «il gioco dei muscoli».

L'impressione che si ricava dalle manifestazioni sopra elencate è insomma quella di una persona fondamentalmente malvagia, che tenta di nascondere il proprio carattere malvagio sotto l'indifferente e pragmatico brusio dei discorsi, volgendo lo sguardo altrove. Essendo di bassa statura, è possibile che il presidente abbia sempre avuto il problema di apparire importante e che a tal fine abbia elaborato una serie di tecniche. Il suo modo di parlare pragmatico, veloce e freddo produce un effetto di straniamento, lo isola dagli altri, e anche l'abitudine di evitare gli sguardi altrui persegue lo stesso scopo. Isolandosi, si eleva. Da lui non dobbiamo aspettarci gli scandali alcolici, umilianti per la Russia, che contraddistinguevano Eltsin, il suo predecessore. Non dobbiamo aspettarci violenti attacchi d'ira in pubblico. Forse davanti alle telecamere non si comporta come Ivan il Terribile, e questo è un bene. Ma, sotto un altro punto di vista, è pure peggio, se tale comportamento stesse a significare che ha un carattere vendicativo e che i suoi regolamenti di conti con gli altri non avvengono sotto i riflettori, ma dietro le quinte. Non di sua mano, però. Con l'aiuto di esecutori, di servi a lui fedeli. Con l'aiuto, per esempio, della procura generale, o con quello, per esempio, dei servizi di sicurezza federali o, per esempio, con l'aiuto del ministero della Giustizia, o della Direzione generale degli istituti di pena, con l'aiuto, per esempio, della commissione elettorale centrale…

L'impassibilità, la mancanza di umanità del presidente Putin si ritorcono talvolta contro di lui, come nel caso del sottomarino Kursk. In quell'occasione, lo ricorderete, se ne è rimasto nella calda cittadina di Soči, sulla costa del mare del sud. Invece di volare come un proiettile, con un aereo ad alta velocità, verso le coste del mare di Barents. Se non altro per dovere d'ufficio. E coordinare sul posto il salvataggio dei marinai, impegnarsi almeno in un coraggioso tentativo di salvataggio. Avrebbe dovuto mettersi sulla riva con gli stivali nell'acqua e star lì a far galoppare i soccorritori. Con stivali di gomma… Avrebbe dovuto sfruttare tutte le proposte giunte dalle nazioni straniere, approfittare di ogni aiuto. E quando, dopo tot giorni, non si sarebbe più potuto far nulla, avrebbe dovuto mettersi davanti alle telecamere, esausto, con i segni sul viso delle notti insonni, sullo sfondo di quel mare freddo che è diventato la tomba di centodiciotto marinai russi e dire: «Cittadini della Russia, ho fatto tutto il possibile, non ho potuto fare di più!» Invece l'abbiamo visto abbronzato e tranquillo, con una maglietta polo, sulla costa del mare del sud. È stata la prima volta che ha dimostrato la sua mancanza di umanità. Si è dimostrato indifferente. Poi è seguita la risposta glaciale, divenuta storica, alla domanda del giornalista americano Larry King: «Che cosa è successo al vostro sottomarino Kursk?» «È affondato» ha comunicato lui candidamente, con un'espressione dolce e calma sul viso. Non gli è neanche passato per la testa di proclamare il lutto nazionale. Già allora era evidente fino a che punto i suoi connazionali gli fossero indifferenti. Il viso del presidente s'illumina di sorrisi sinceri, di cordialità e simpatia solo quando lo vediamo incontrarsi con i grandi leader occidentali, con i suoi amici: con Bush, con Berlusconi, con Schröder. È allora che tira fuori il suo fascino. Domanda: perché non si comporta così con noi, con i cittadini russi? Forse perché ritiene che con noi bisogna essere severi oppure, come minimo, impassibili?

Quando lo vediamo alla televisione, il più delle volte sullo sfondo compaiono i mobili fuori moda, «alla zarista», del Cremlino. Lui se ne sta seduto sul broccato di ottomane ricamate, dotate di gambe ricurve di legno intagliato, o su sedie dello stesso genere. Quando lo vediamo, la carta da parati e le tende sullo sfondo hanno tutte il disegno dell'aquila bicipite. L'allusione o il messaggio eloquente è: questi sono gli attributi zaristi del potere del presidente. Ma la Russia è una repubblica dai tempi della rivoluzione del febbraio del 1917! Oppure sono io a interpretare in modo sbagliato il significato dell'aquila bicipite? Avendo vissuto a lungo in Francia, ricordo che seduto su mobili simili, su ottomane con le gambe ricurve, François Mitterrand ha scontato due mandati presidenziali. Ma all'interno del palazzo dell'Eliseo, da quanto ho potuto vedere alla televisione, non mi sembra di aver notato corone o linee genealogiche regali. Pal Palyč Borodin, coordinatore della ristrutturazione delle camere presidenziali del Cremlino, ha evidentemente preso a modello lo stile dell'Eliseo, sede dei presidenti francesi (i mobili della Casa Bianca del presidente americano hanno linee meno curve, le ottomane sono più lineari e più semplici). La mia opinione è: il presidente della Russia, Paese in cui la quantità dei poveri va da un terzo alla metà della popolazione, non dovrebbe farsi vedere circondato da un arredamento tanto pacchiano nella sua esibizione di una ricchezza d'altri tempi. La mia opinione è che gli incontri quotidiani di Putin con i ministri seduti sempre allo stesso tavolino minuscolo, che attraverso la televisione vengono mostrati a tutto il Paese, non siano che una goffa messinscena. Che quel tavolo inizialmente sia stato progettato per giocarci a carte, o per farci poco di più. Non ci sono prove che quel tavolo serva al presidente per lavorare, neanche una: non ci sono carte sparse sopra, né cartelle o cartelline con le pratiche, né computer. Che bisogno c'è di prendersi gioco della popolazione in un modo così triviale, rappresentando una simulazione di lavoro? Eccolo là, Putin, che con la voce monotona e pragmatica del presidente che sa il fatto suo (nascondendo gli occhi) pone una domanda a un ministro: «Perché non è stato fatto questo e quest'altro?» Il ministro con la sua cartellina, dopo un colpo di tosse, afferma come da copione: «Quello è già stato fatto, questo e quest'altro sarà fatto tra una settimana». Il cittadino deve essere soddisfatto. Il presidente è sobrio, il lavoro va avanti. Il ministro tossisce, si vede la cartellina che contiene le pratiche. O forse dei vecchi giornali?

Come dovrebbe essere, secondo il nostro presidente, il governante ideale? Sarei curioso, molto curioso di saperlo. È chiaro che non si tratta dello sgobbone con una giacca qualunque, magari non una giacca con le toppe ma poco ci manca, le cartelle con le pratiche che occupano tutta la scrivania e che invadendo pure le ottomane finiscono col farle crollare sotto il loro peso. Il cui computer, gonfio di megabyte, non riesce a contenere tutti i documenti del presidente. È chiaro che l'ideale di Putin non è Lenin che lavorava fino ad avere il cervello in fiamme, che dettava a tre dattilografe contemporaneamente tra le nubi del fumo che operai e deputati dei soldati sbuffavano fuori. Nel 1990-91 molti membri di primo piano del PCUS hanno preso bruscamente le distanze da Lenin come il diavolo dall'acquasanta, interi battaglioni e reggimenti di funzionari del partito hanno sbattuto la tessera sul tavolo. Dal 1990 il tenente colonnello a riposo del KGB Putin ha lavorato per Sobčak, suo ex professore dell'Università statale di Leningrado, in quanto persona che di Sobčak condivideva pienamente le idee. Perciò l'ideale di Putin non è certo Lenin, Sobčak non avrebbe accolto una persona con ideali simili. Capire l'ideale politico del presidente è possibile attraverso il suo gusto estetico, manifestatosi soprattutto durante le due cerimonie di insediamento. Ho già scritto in dettaglio delle cerimonie nel capitolo «A quanto pare, Lei crede di essere uno zar». Il suo modello estetico si rifà all'autocrazia della Russia zarista, l'ideologia del nostro Paese prima del 1917. Ed è sempre all'autocrazia, anche come modello politico, che si è rivolto Putin una volta diventato il signor presidente della Federazione Russa. Coscientemente e incoscientemente. Più incoscientemente, quasi per un richiamo del sangue, della tradizione. Del resto qui da noi ogni poliziotto di quartiere, ogni agente messo a piantonare le strade, che in cambio di tangenti offre protezione ai chioschi vicino alle stazioni della metro, si comporta da autocrate… Tornerò ancora sull'autocrazia, vi chiedo soltanto di comprendere e accogliere le mie osservazioni sul governante della Russia. È importante.

Cito un passo del New York Times. Il quotidiano dà il resoconto di una conferenza stampa del presidente russo:

Anche quando Putin parlava con calma e quasi con dolcezza, le sue dichiarazioni erano esplicitamente dure… Mentre conversava con qualcuno il suo corpo si comportava come se fosse coinvolto in una sfida. Quando gli ponevano delle domande, spesso lui si appoggiava allo schienale della sedia, muovendo le spalle o raddrizzando la schiena, come fanno, tra una serie e l'altra, gli atleti che sollevano pesi… Una volta che la domanda era stata posta si curvava in avanti e, trasferendo il peso del corpo sugli avambracci, forniva una risposta dettagliata… Le sue dichiarazioni ricordavano lo stile di un operoso micromanager.

Il Washington Post ha così caratterizzato la stessa conferenza stampa:

Il leader russo ha parlato per tre ore, tra scoppi d'ira e smorfie che gli deformavano il viso quando attaccava coloro che muovono critiche alla politica russa.

Era irritato, con smorfie sul viso. Nessuno dei giornalisti stranieri ha visto la bontà del presidente. Io non l'ho mai visto buono. O è la sua natura a impedirgli di essere buono, oppure è lui stesso a ritenere che la sua carica, quella di presidente della Russia, lo obblighi a essere malvagio. La cosa più probabile è che lui non sia buono per natura, e che in più ritenga che uno zar debba essere severo, pieno d'ira. Il popolo russo adulava lo zar chiamandolo «batjuška», cioè «padre». Nella stessa espressione «zar-batjuška» è implicita una sfumatura di bontà: come il pane deve essere buono perché dentro deve esserci la mollica che è buona, così il popolo ha sempre sperato nella bontà dello zar. Veniva usata anche l'espressione «zar-sovrano» che compare soprattutto nelle stampe dell'arte popolare russa (lubok) dedicate a Pietro I. È evidente che Pietro I, malvagio, con i baffi, un padre padrone senza barba non poteva essere per il popolo uno «zar-batjuška». Anche il presidente Putin si comporta come se fosse nostro padre. Un padre malvagio, esigente, i muscoli facciali che si tendono e si rilassano, le smorfie, gli occhi nascosti. Di tanto in tanto picchia la sua famiglia, è avaro di sorrisi e regali non ne fa. Non ha neanche costruito Pietroburgo; al contrario, le terre russe le dà via. Ed esige pure che tutti noi corriamo a combattere una guerra che lui ha inventato, e che nelle nostre città ci diamo in pasto ai terroristi. Siccome i ceceni non vogliono far parte della sua famiglia, lui li trattiene con la forza, con le botte. Vladimir Vladimirovič, signor Presidente, Lei non crederà veramente che con le percosse può costringere i Suoi familiari a vivere insieme a Lei? Senza amore, con le percosse? No, suppongo che Lei non lo creda. E allora perché costringe un intero Paese a sopportarLa?

Il presidente della Russia, ritenendosi per errore uno zar (Pal Palyč Borodin e Behgjet Pacolli gli hanno piazzato intorno troppe aquile bicipiti), ci considera i suoi sudditi. Ma noi non siamo i suoi sudditi, e non siamo neanche nell''800. Siamo i cittadini di un Paese che non è libero, questo sì, però non siamo i sudditi di uno zar-padre malvagio. Ed è proprio questo che lui tenta di fare: governarci come farebbe uno zar malvagio.

Non c'è dubbio che la persona che si trova a capo dello Stato russo si sia smarrita nel tempo. E, con lui, tutto il suo esercito di funzionari. I suoi servi, i procuratori e i gendarmi dell'FSB. Il suo Stato ha una struttura zarista. Ricordiamo cosa scrisse Lermontov, dei versi per noi da antologia, ricordiamoli:

Russia, Russia povera,
Paese di schiavi, paese di signori,
E Voi, azzurri uniformi,
E tu, popolo che a loro ubbidisce…*

Non è cambiato nulla. Siamo tornati indietro nel tempo. C'è tutta questa

folla avida davanti al trono,
boia della libertà, del genio e della gloria.**

Sono tutti al loro posto. Possiamo fare l'appello.

Le «azzurre uniformi» le indossano i funzionari della procura. Eccoli, questi tutori della legalità, c'è chi pesa tra i centocinquanta e i duecento chili come Ustinov, Kolesnikov, chi è invece sottile come una tenia come tutti i sostituti procuratori, come Kolmogorov, Birjukov, Šepel' e come altri che si perdono in lontananza: il corpo dei procuratori, uno più strano e malato dell'altro. Ustinov (il procuratore generale, il custode principale dell'osservanza delle leggi, che recentemente ha proposto di prendere in ostaggio i parenti di alcuni presunti terroristi) e la sua squadra. Tutti rispondono: «Comandi! Siamo qui! Pronti a servire!»

«I cosacchi? Dove sono i nostri cosacchi?»

«Comandi» rispondono gli sbirri, «siamo noi i cosacchi di questo regime. Disperdiamo le manifestazioni del popolo».

«La Terza Sezione, la polizia segreta dello zar, è presente?»

«Eccoci» risponde la cricca del Servizio Federale di Sicurezza. Maestri di provocazioni, attenti ascoltatori e informatori segreti dalle grosse orecchie arroventate. Si tratta della «Sicurezza Statale», che nel 1991 ha consentito la distruzione dell'URSS e che ora si è specializzata in pestaggi e nella cattura di ragazzi e ragazze membri del Partito nazional-bolscevico. Cavalieri del mantello e del pugnale, che a suo tempo mi arrestarono con l'accusa di organizzare la separazione del Kazakistan orientale, popolato da russi, dallo Stato del Kazakistan. Pensate un po', mi hanno accusato del fatto che a tale scopo io avrei acquistato armi e organizzato formazioni armate clandestine. Pensate un po', i servizi segreti russi mi hanno arrestato per questo! Se erano convinti della autenticità delle accuse, avrebbero dovuto darmi una medaglia. Com'è che invece hanno sbattuto me, un patriota, in prigione? E avrebbero voluto lasciarmi dietro le sbarre per sempre, per farmi marcire lì dentro. Le prove però non sono riusciti a fornirle, che disdetta. «La polizia segreta zarista è qui! L'FSB vigila!»

«E i nostri ochotnorjadcy, i piccoli commercianti che all'inizio del secolo ventesimo perseguitavano ebrei e intellettuali, dove sono?» Sì, quelli con la pancia (prima avevano anche la barba, ora invece hanno il muso liscio), le forze più reazionarie, oscurantiste della Russia. Prima erano i mercanti, ora sono i deputati.

«Siamo dove dobbiamo essere, in via Ochotnyj rjad, 2!» rispondono i deputati di «Russia Unita». Sono talmente reazionari che presto vieteranno agli uccelli di volare.

«L'Unione di S. Michele Arcangelo è presente?» Che oggi esista una cosa del genere sembrerebbe impossibile. Eppure esiste. È l'organizzazione «Nostri», con a capo i fratres Jakemenko con la menzogna nello sguardo, i cui servizi vengono pagati dallo staff del presidente. Pronti oggi come cento anni fa a rompere il cranio ai nemici del Sovrano. In versione leggermente aggiornata: quelle facce toste si definiscono beffardamente «antifascisti», e chiamano «fascisti» gli oppositori di Putin.

A prima vista sembra mancare un Rasputin. In compenso c'è la cattedrale di cemento di Cristo Salvatore e c'è il Gran Pope modificato, onnipresente come Rasputin, il patriarca Aleksij, dove ce n'è e dove non ce n'è bisogno, non manca mai. Si dice che nel 1996, in cambio di cinquecento chili d'oro «regalatigli» per la doratura delle cupole, abbia esortato il suo gregge a non votare per il comunista Zjuganov. Ci sono preti di rango più basso, culi immensi fasciati da sottane. Che razza di zarismo sarebbe senza oscurantismo clericale? L'arciprete Čaplin è andato a Seliger per partecipare al raduno di «Nostri», dove ha dato la sua benedizione ai loro pestaggi. Un rappresentante ufficiale della Chiesa Russa Ortodossa, da un fianco all'altro due metri di larghezza.

I funzionari poi, come i personaggi gogoliani delle Anime morte, sono immortali ovunque! Brulicano vermi di tutti i tipi: grassi e flemmatici come Mironov del Consiglio della Federazione, magri e isterici come Vešnjakov della Commissione Elettorale Centrale, lustrati come un pianoforte come Zurabov (sembra sempre che porti non una ma due cravatte, questo Zurabov). Prima c'era pure Počinok, un tipo tutto sbilenco, con un filo di bava all'angolo della bocca, ma non si sa che fine abbia fatto. E poi basti pensare a Stepašin il criceto… E Dmitrij Kazak o Kozak, la faccia che è una specie di incrocio tra una sega e un'accetta. E questo Gryzlov, il viso pieno di buchi che sembra un colabrodo, come se fosse stato mangiato dalla ruggine. Dio mio! Se ne vedono veramente di tutti i colori! Le ragazze invece, la ragazze funzionarie, un matriarcato, la Slizka e la Matvienko, i capelli pieni di lacca, pettinate permanentemente come la regina d'Inghilterra! Oh ragazze funzionarie dai possenti fondoschiena di ippopotamo! Non si è ancora trovato un cantore degno di celebrare la vostra grandezza!

«Siamo qui!» rispondono i funzionari, nascosti dietro il piccolo e malvagio eletto dal popolo, facendo capolino.

Tutti questi difensori del trono sono convinti di rappresentare la Santa Russia che è custode dei sacri principi. Invece sono personaggi del passato, sinistramente sopravvissuti al clima gelido della Russia. Della Russia satanica.

Il difetto principale dell'autocrazia putiniana non è tanto nella condizione di povertà in cui la popolazione è costretta a vivere. Il regime del gruppo di Putin non deve essere valutato in base a parametri economici (sebbene esso anche in base a tali parametri appaia penoso), ma in base alla quantità di umiliazioni, di sofferenze, di dolore e di non libertà a cui la popolazione è stata sottoposta. In base a questi parametri il regime di Putin deve essere condannato in quanto disumano. Ecco il suo difetto peggiore: l'atteggiamento insopportabilmente altezzoso (in vero stile polizia segreta), antidemocratico, incivile, medievale nei confronti dell'uomo. Il modello dello Stato paternalistico con a capo un padre severo, sua Altezza il Presidente «Padrone» è in realtà il modello dei campi di prigionia russi. Io sono stato detenuto in uno di questi campi, il n.13, nelle steppe al di là del Volga. Lì la ricompensa per i detenuti obbedienti è non essere picchiati; i disobbedienti, invece, non solo vengono picchiati, ma capita che vengano menomati o uccisi. Nel XXI secolo il modello dello Stato-prigione non deve più esistere. Stati di questo tipo non sono più accettati, appartengono ormai a un sinistro passato.

Lui ci tratta come se fosse un padre malvagio. Ma lui, di per sé, com'è?

Non è coraggioso. Al Centro Teatrale Na Dubrovke non si è fatto vedere, a Beslan è andato e tornato in aereo, in segreto, di notte, affinché nessuno, tranne le autorità locali, lo vedesse, in modo da non incontrarsi, Dio ce ne scampi, faccia a faccia con i parenti degli ostaggi uccisi. Poco prima delle elezioni del 2000 è volato con un caccia in Cecenia a fini di propaganda: è rimasto all'aeroporto soltanto per qualche ora, ben protetto dagli scudi delle forze dell'ordine. Nei momenti di crisi lui si nasconde, resta al riparo ed esce allo scoperto soltanto dopo che la tempesta è passata.

Non è generoso. È avido. Dalla rapa non si cava sangue. La Russia invece avrebbe bisogno di un presidente buono, buono, fosse anche la prima volta nella storia, un presidente che vada di persona a distribuire cappotti imbottiti alla gente congelata sui marciapiedi del Sadovoe kol'co. Che conceda un'amnistia ai galeotti ridotti allo stremo delle forze. Che vada di persona nelle case della gente, dei nullatenenti, e ci parli col cuore in mano, e gli dia dei soldi. I suoi soldi.

Non è nobile. È un anno che tiene in gabbia nove ragazze del Partito nazional-bolscevico perché sono entrate nell'anticamera dell'Amministrazione del Presidente. Decidesse di liberare almeno le ragazze! Macché! È insensibile e ingiusto.

Ci ha tolto le nostre libertà. Tutte. Se ne è impadronito completamente.

Usa la menzogna come metodo di gestione dello Stato. E lo fa regolarmente, non in via eccezionale.

Usa la forza come metodo di gestione dello Stato. È un uomo della forza. Con la Costituzione che abbiamo, che concede al presidente diritti veramente illimitati, più diritti di quelli che avevano gli zar russi, le qualità individuali del presidente non sono indifferenti a noi cittadini. Se è adirato e dà ordine di assaltare il Centro Na Dubrovke utilizzando un gas sconosciuto, saremo noi cittadini e saranno i nostri figli a morire, non quelli di Putin. Se a Beslan ordina l'assalto dopo aver inscenato un'esplosione accidentale proveniente dall'interno, sono i bambini osetini e russi della Scuola n.1 a morire, non i bambini dei coniugi Putin. La seconda guerra cecena (ho messo insieme vari dati sul numero delle sue vittime e ho calcolato la media) si è portata via, tra civili, truppe federali e guerriglieri di Maschadov/Basaev, la vita di trentamila persone. Ma il presidente, tranquillo, guarda a questa guerra come a un fenomeno naturale da sfruttare a proprio vantaggio e non prende volutamente alcun provvedimento per mettervi fine: è un presidente pericoloso. È pericoloso perché ha un solo modo di risolvere le crisi: con la forza. Forse si comporta così perché proviene dai servizi segreti, oppure perché questa è la sua natura, perché la mamma l'ha fatto così. Non sappiamo perché, ma che sia pericoloso per noi, per il popolo, lo sanno le vedove e i parenti di tutti coloro che sono morti in Cecenia, le madri e i padri di Beslan e i parenti di coloro che sono morti sulla Dubrovka.

Con ciò che dice, e lui parla molto e volentieri, ogni tanto si può anche essere d'accordo. Ma non con ciò che fa. Tranne forse quando dà dell'avena al cavallino Vadik. Per il resto è un capo dello Stato pieno d'ira, con tutta probabilità vendicativo, diventato presidente grazie a una nomina. Per governarci ha adottato uno stile paternalistico: è lui a decidere tutto, noi non decidiamo nulla. Si è scelto il ruolo del padre malvagio, il nostro.

Per capire perché sia pericoloso, immaginatevi trentamila cadaveri posti sull'asfalto della città di Mosca. Lui non è l'unico colpevole di queste morti. Ma la colpa è anche sua, sua e del suo carattere. I membri del Partito nazional-bolscevico che stanno penando in carcere hanno ragione:

UN PRESIDENTE COSÌ NON CI SERVE!

[2005]


* Michail Lermontov, Addio, Russia trasandata, 1841. Limonov mutua il primo verso con quello della poesia di Aleksandr Blok Russia, 1908. (N.d.T.)

** Michail Lermontov, La morte del poeta, 1837. (N.d.T.)

L'età dei profeti

Ho vissuto, ho vissuto e ho scoperto che presto compirò sessantatré anni. L'età dei profeti. C'è di che riflettere. Soprattutto sul fatto che non contavo di vivere così a lungo. Quando avevo diciassette anni gli uomini di trenta mi parevano vecchi. Adesso invece io non penso di me «ah, questo sì che è un vecchietto!», no, non ho questa sensazione.

La cifra «sessanta» non mi ha scioccato, ho varcato la soglia del sessantunesimo anno mentre ero in carcere. Sono felice che sia andata così, che alla Casa Centrale dei Letterati abbiano festeggiato il mio compleanno senza di me. In quel momento ero rinchiuso nel carcere centrale di Saratov, nell'edificio destinato ai condannati per reati gravi, quello che chiamano «numero tre». I festeggiamenti in occasione di un compleanno a cifra tonda si trasformano sempre in volgari gozzoviglie. Perciò dal punto di vista estetico sono stato fortunato: mentre la gente beveva, mangiava e probabilmente cantava le mie lodi, io me ne stavo nobilmente rinchiuso nella mia cella…

Vado per i sessantatré e me li porto piuttosto bene. Di questo devo ringraziare la mia schiera di antenati che si perde nella notte dei tempi: ho scoperto di avere ottimi geni. Prima, il fatto di avere all'età di trent'anni passati (e sarebbe stato così anche in seguito, per molti anni) l'aspetto di un minorenne mi irritava, e attendevo con impazienza la comparsa dei primi capelli grigi. Adesso mi augurerei che sparissero, i capelli grigi, almeno parzialmente.

Anche se la mia compagna, l'attrice Katja Volkova, sostiene che a lei i miei capelli per tre quarti grigi piacciono. Ha pure deciso che devo farmeli crescere. Cosa che io, ubbidiente, sto attualmente facendo. Problemi gravi di salute non ne ho. Nel 1996 ho subito un'aggressione in cui, a forza di calci in testa, mi hanno danneggiato entrambi i bulbi oculari. I bulbi hanno riportato dei graffi, come se si graffiasse il retro di uno specchio con una chiave. Le donne russe sono soddisfatte di me. Di cos'altro potrebbe aver bisogno una persona che vuole avviarsi degnamente verso l'età dei profeti? Perché proprio «russe»? Perché sono le più esigenti e le più prive di tatto. Se non le soddisfi te lo dicono senza tanti complimenti, non hanno paura di ferirti.

Scrivo i miei libri e articoli alla svelta e senza sbavature, direttamente in bella copia. In poco più di due anni di reclusione sono stato capace di scrivere otto libri. Quando mi sono messo in politica, qualcuno mi ha detto con benevolenza: «Come scrittore sei bravo, ma come politico non ti ci vedo proprio. Faresti ridere». Essendo ben consapevole del fatto che la maggioranza della gente è formata da reazionari, da individui poco perspicaci e da conformisti, le loro opinioni mi hanno lasciato indifferente. Ho lavorato, ho creato il progetto Partito nazional-bolscevico che tutta la macchina statale di violenza della Federazione Russa non è riuscita a distruggere. Questo mi dà soddisfazione. O meglio, dà soddisfazione non a me con i miei capelli grigi, ma a quel ragazzino proveniente dalla periferia di Char'kov che in me è ancora vivo.

La Russia mi tratta come un figlio che non ama. Non ho ricevuto neanche un premio letterario. Senza contare il fatto che le forze dell'ordine aggrediscono continuamente i miei compagni di partito, li picchiano, li trascinano fuori dalle loro case, e che nel 2003 hanno tentato di darmi quattordici anni di prigione, il che, considerando la mia età, avrebbe significato una morte certa.

La mia biografia è talmente avventurosa che ragazzi e ragazze possono soltanto sognare di averne una simile. Nella mia vita ci sono state e ci sono tuttora belle, bestie e creature malvagie. C'è stata l'emigrazione, ci sono state le splendide città di New York e Parigi, le guerre balcaniche (la Serbia è il mio Caucaso!), le guerre in Abcasia e nella Repubblica Moldava di Pridnestrovie. Quando faccio la mia comparsa, un paio di volte all'anno, ai raduni della conventicola degli intellettuali, nella folla si avverte un senso di inquietudine, e se prendo posto in una sala le sedie intorno a me restano vuote. Le persone per strada mi salutano, ma ci sono anche quelle che mi odiano con tutto il cuore. Mi piacerebbe che la gente mi desse più ascolto. Sono un tipo per niente stupido, l'ha ammesso di recente anche la mia madre ottantaquattrenne, la mia vecchietta, un tipo severo che non fa i complimenti tanto per farli. Le telefono a Char'kov una volta alla settimana. È lì che sta trascorrendo l'ultimo periodo della sua vita, da sola. Non mi lasciano entrare in Ucraina, l'entrata nel Paese mi è preclusa. Recentemente il presidente Juščenko rispondendo a un giornalista ha dichiarato che avrebbe risolto la questione riguardante l'affare Limonov.

Ho contro l'FSB, la Direzione regionale per la lotta contro la criminalità organizzata e il centro «T», vengo contestato dai tutori dell'ordine pubblico, dai giornali, dalla televisione, e ci sono pure otto siti web schierati contro di me. C'è un certo Mark Deutch che di tanto in tanto viene pagato per annunciare che Limonov è omosessuale, mentre nella stagione successiva lo staff del presidente annuncia che sono un fascista. Tutto questo è ridicolo. Per il popolo russo neanche la permanenza in carcere rappresenta qualcosa di compromettente, ma, al contrario, è un pregio: figuriamoci allora se è possibile screditare qualcuno denunciando la sua «amoralità».

Che ne sarà di me? Poiché mio padre è vissuto fino all'età di ottantasei anni, geneticamente ho diritto ancora a venticinque anni di vita. Ho ancora la possibilità di ricevere il Nobel per il corpus delle mie opere. Ma posso anche ricevere una pallottola in fronte da parte dei miei nemici. Non me ne dolgo, perché so con certezza che ci sarà sempre qualcuno disposto a vendicarmi.

[2008]

Vladimir Sorokin

. . . . . . . . . .

^ наверх