Eduard Limonov «Grande ospizio occidentale»

Eduard Limonov

Grande ospizio occidentale

/ traduzione di Andrea Scarabelli
// Milano: «Bietti Edizioni», 2023,
copertina flessibile, 240 p.,
ISBN: 978-8-88248-521-4,
dimensioni: 196⨉125⨉13 mm

Può esserci qualcosa di peggio della violenza di Stato che nel XX secolo ha mietuto milioni e milioni di vittime? La risposta di Eduard Limonov è affermativa. Più liberticida del cappio totalitario è l’oppressione soft esercitata dai regimi liberisti odierni. Questi non trattano i propri sottoposti come sudditi o schiavi, ma come pazienti bisognosi di cure, educabili e rieducabili a piacimento. Più che caserme sono ospedali, dove regna una mortale tranquillità, basata sulla sistematica repressione di ogni dissenso. Un gigantesco esperimento di ingegneria sociale, attuato su scala planetaria con il consenso dei «malati» — che, si sa, vanno anzitutto difesi da loro stessi. Obitori dello spirito, buonisti e revisionisti, questo libro traccia la loro geografia, senza concedere sconti a nessuno. Un’analisi spietata del migliore degli inferni possibili — quello in cui viviamo.

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Nota del Curatore

Nel seguente estratto da Il libro dell’acqua, edito in Italia nel 2004 dalla splendida casa editrice Alet — defunta per troppa qualità, com’è facile in Italia —, c’è quasi tutto di Eduard Limonov.

I francesi, i tedeschi, gli americani da tempo non hanno più nessuna energia. Ho avuto molte occasioni per convincermene. Non sentono più la vita. Il futuro appartiene ai talebani, ai turchi, basta guardare come se le danno, ai curdi, a tutta questa folla selvaggia di individui sospetti che gli europei disdegnano e non capiscono. L’Europa è già morta, stanca e profondamente cambiata, perciò tutte quelle splendide fichette di rue du Petit Musc è inutile che sbattano le ciglia. Ci vorrebbe un ceceno che gli s’infili nelle mutande per insegnar loro a rigar dritto. ⟨…⟩ I miei noiosi colleghi letterati, anche i migliori tra loro, non hanno capito e si ostinano a non capire quanto l’essermi lanciato nella guerra e nella politica abbia ampliato le mie possibilità. Il nuovo senso estetico era quello che nasceva sfrecciando per una città bruciata sopra la corazza di un carro armato circondato da giovani belve con fucili d’assalto.

C’è il giudizio Sull’Occidente, da lui conosciuto sin dal suo barboneggiare per la New York degli anni Settanta ricalcando le orme di tanti emigré — con i Velvet Underground sullo sfondo al posto dei Balalaika Russe —, fino al suo errare da Parigi a tutte le capitali europee dagli anni Ottanta all’inizio del terzo millennio. C’è il suo orgoglio di essere sempre stato anche un uomo d’azione, dalla politica di strada e gli scontri di piazza nella Russia postsovietica, al suo comparire nei Balcani e nel Caucaso delle guerre negli anni Novanta, tanto ipocrita— mente sottovalutate o colpevolmente ignorate a Ovest. C’è poi il Limonov politico, l’enfant terrible, il Limonov scrittore, quasi sempre autobiografico o parabiografico. Tra le righe c’è il Limonov punk — troppo punk per un serioso Dugin, con cui infatti ruppe, e messo al bando oggi sia in Russia sia in Ucraina —, amico di Egor Letov, cofondatore del Partito Nazional-Bolscevico e anima del gruppo punk-folk Grazdanskaja Oborona (Difesa civile), e della cantautrice e poetessa Janka Djagileva, ambedue morti prima dei quarant anni — anno più, anno meno —, come logico dev’essere per artisti davvero al di fuori o contro.

Nel libro che avete in mano c’è forse il miglior Limonov metapolitico, profetico e anche divertito, ed è per questo che abbiamo tanto desiderato farlo uscire in italiano — tradotto dall’edizione francese di Bartillat del 2016 — con la stessa urgente passione che proviamo per due altri grandi irregolari: Louis-Ferdinand Celine e Dominique Venner.

Limonov è profetico quando identifica con precisione, negli anni ormai lontani a cavallo del crollo dell’URSS, il controllo sull’uomo del Potere, statale o esercitato da organizzazioni sovranazionali o private. Un controllo che passa dalla violenza brutale dello «stivale che calpesta un volto per sempre» di 1984 di Orwell — testo per Limonov non profetico, ma banalmente descrittivo dei metodi dei totalitarismi staliniani e fascisti, a parte la neolingua, prefiguratrice del «politicamente corretto» — alla violenza soft del controllo psicologico, dei sistemi di sorveglianza avanzati, della digitalizzazione liberticida dell’esistenza, del sostituire l’emozione e le pulsioni vitali dell’uomo con i succedanei dell’intrattenimento di massa. Potenzialità letali che sappiamo essere ben intuite dall’Huxley di Brave New World, assieme agli abissi della ricerca genetica senza limiti.

La metafora delle società «occidentali» — e sottolineiamo come per Limonov, da un certo punto di vista, fossero ormai «occidentalizzate» anche Russia e Cina, e scriveva nel 1988–’89! —, simili a strutture ospedaliere o ospizi, con i cittadini ridotti a pazienti passivamente confinati nelle loro corsie d’ospedale, accuditi da solerti infermieri e orgoglio dell’amministrazione, risuonerà attuale a chiunque dopo due anni di restrizioni pandemiche. Tuttavia, sarebbe superficiale limitarsi a questa interpretazione, per il semplicissimo motivo che una nutrita letteratura su questo tema non ha cessato, in questi ultimi decenni, di far scattare continui cicalini di allarme sulla strisciante violenza soft degli Stati e delle mega-corporazioni e il suo sempre più totalizzante dominio sull’uomo. Da schiere di testi scientifici sul controllo sociale e sulla cultura della sorveglianza ai romanzi di William S. Burroughs e J.G. Ballard, dall’intero genere cyberpunk agli scritti di Theodore Kaczynski e di libertari nordamericani come Claire Wolfe, sino alle città fantasma di Paul Virilio e Mike Davis.

Eppure, al momento non diciamo della verità, ma in un periodo di misure e restrizioni viste da molti — non intendiamo dai complottisti rettiliani, ma da persone di buon senso — come più autoritarie che sanitarie, la quasi totalità delle persone «avvertite» che ben conoscevano questi autori hanno dimostrato con il loro precipitare nello sgomento esterrefatto prima, e tutto sommato nell’accettazione poi, di aver letto quei libri come astratte opere di riferimento o pura letteratura d’evasione o erudizione, scegliendo più o meno inconsciamente, più o meno deliberatamente, di ignorare che sì, questi scrittori parlavano di noi, di noi nel nostro reale, presente e futuro.

 

Vedremo se queste pagine di Limonov avranno maggior fortuna.

 

Ovviamente, no.

Andrea Lombardi,
maggio 2023

Sanatorio disciplinare

di Alain de Benoist

Eduard Limonov è un po’ l’improbabile somma di Arthur Rimbaud e Jean Genet, con un po’ di Pasolini e un po’ di Celine. È un personaggio inclassificabile, impossibile da incasellare in una qualsivoglia tavola di Mendeleev degli scrittori dei nostri tempi! Poeta e teppista, vagabondo e maggiordomo, miliziano filo-serbo durante la guerra di Bosnia, dandy dissidente, cane da guerra, oppositore nel cuore, pazzo della letteratura, amante delle donne e delle risse, oppositore e poi sostenitore di Putin, la sua stessa vita alla vodka è un romanzo incredibile.

Slobodan Despot, scrittore serbo ora residente in Svizzera, che ha pubblicato La sentinelle assassinée (La sentinella assassinata) con L’Âge d’Homme di Losanna, lo ha definito un « Rimbaud alla fine del mondo», geniale creatore dalle molte vite che si è fatto simbolo di gran parte della storia russa contemporanea. «Tutto poteva essere trash in lui, ma niente era basso» ha detto, per poi aggiungere: «Avrebbe preferito essere un guerriero piuttosto che un pensatore. Il suo discepolo Zachar Prilepin1 ha riunito le due cose». Un altro dei suoi più cari amici francesi, lo scrittore e traduttore Thierry Marignac, che ha vissuto a lungo a Mosca e ora risiede a Bruxelles, è della stessa idea.

Eduard Veniaminovich Savenko, più noto come Eduard Limonov, nasce nel 1943 a Djerzhinsk, città industriale dell’ex Unione Sovietica, ma trascorre la propria infanzia a Kharkov, in Ucraina. Suo padre è un ufficiale inferiore dell’NKVD. Da giovane legge Jules Verne e Alexandre Dumas, sognando avventure eroiche. Finisce ben presto in una banda di teppisti responsabile di vari misfatti, come racconterà più tardi nel suo Autoportrait d’un bandit dans son adolescence (Autoritratto di un bandito adolescente) e ne Le petit salaud (Il piccolo bastardo). Al tempo stesso, frequenta la scena bohémien locale — soprattutto i circoli letterari — e comincia a scrivere le sue prime poesie.

All’età di treni'anni raggiunge gli Stati Uniti, dove scrive anche romanzi. Si unisce ai circoli punk e alle avanguardie di New York ma vive miseramente, spostandosi di tugurio in tugurio. Si butta nella malavita, frequentando ladruncoli, drogati e senzatetto, con i quali moltiplica le proprie esperienze sessuali (descritte in Le poète russe préfere les grands nègres, cioè II poeta russo preferisce i grandi negri, opera che in russo si intitola Èto ja —Èdicka, Sono Èdicka, dove Èdicka è l’archetipo del teppista dandy, del poco di buono) prima di trovare lavoro per qualche tempo come domestico per un milionario di New York.

Nel 1980 si trasferisce a Parigi, dove si fa molti amici negli ambienti più anticonformisti della Capitale, scrivendo sulla stampa comunista («L’Humanité») ma anche sulle riviste della destra radicale. Più avanti lo si legge pure su «L’Idiot international», foglio incendiario curato dallo scrittore Jean-Edern Hallier, dove incontra Patrick Besson, Philippe Sellers e Marc-Edouard Nabe. Si dichiara subito un «nazional-bolscevico». Al crollo del sistema sovietico attacca violentemente Gorbaciov, ma anche il «gendarme del mondo» americano.

È in questo periodo che scrive lo straordinario pamphlet Grande ospizio occidentale, ora finalmente disponibile per i lettori italiani. Tradotta dal russo da Michel Secinski, l’opera esce per la prima volta in Francia nel 1993 da Belles-Lettres, nella collana L’Idiot international. Viene poi ripubblicata nel 2016 da Bartillat, con una nuova prefazione dell’autore. Il titolo russo è ancora più eloquente: Disciplinarnyj sanatorij (Sanatorio disciplinare).

La tesi può essere riassunta in poche parole. Vivere nelle società occidentali oggi significa vivere in un ospizio. Un ospizio gestito dalle autorità pubbliche (qui chiamate «amministratori») e popolato non da cittadini ma da pazienti che vivono sotto sedativi, tranquillanti e altri antidepressivi. Finché si comportano in modo obbediente — e la reclusione sotto l’epidemia di Covid 19 è stata un test in scala reale della loro docilità —, vengono accuditi dalle autorità, che offrono loro attività ricreative sempre più sofisticate per distrarli dalla loro condizione. Ma se si ribellano, se si comportano da «agitati», cioè da oppositori che «pensano male», allora viene inflitta loro una severa repressione. In breve, descrivendo il ricovero generale nella società capitalistica avanzata, Limonov evoca la «violenza morbida» così come il totalitarismo morbido, il capitalismo della seduzione e la dittatura dei diritti umani, il moralismo e l’«impero del bene», quello che Christopher Lasch ha definito Stato terapeutico e infantilizzazione programmata, la «moralità» e la «produzione di opinioni prefabbricate», la normalizzazione attraverso la mercificazione del mondo e schiere di schiavi innamorati delle loro catene.

Viene in mente ciò che Solzenicyn disse agli studenti di Harvard: «Vengo da un Paese in cui non si poteva dire nulla, e scopro un mondo in cui si può dire tutto senza che ciò serva a nulla». Sorge allora una domanda: quale libertà rimane quando la preoccupazione principale delle democrazie liberali è quella di governare senza il popolo e contro il popolo?

Il libro è stato ispirato a Limonov soprattutto dagli anni trascorsi a Parigi. Per lui, la Francia è il «laboratorio» esemplare in cui viene sviluppato il principio dell’ospizio. Se avesse potuto vedere i deliri a cui hanno portato oggi la teoria del gender, la cancel culture e il wokismo, probabilmente avrebbe scritto che l’intero Occidente è diventato una sorta di ospedale psichiatrico.

Durante la guerra in ex Jugoslavia Limonov si impegna ardentemente con i nazionalisti serbi e si lega a Radovan Karadzic. Lo si vede anche in Abcasia e in Transnistria. Nel 1994, tornato in Russia, fonda il Partito Nazional-Bolscevico (PNL) con Aleksandr Dugin (che litigherà presto con lui) e lancia il giornale nazionalista-rivoluzionario «Limonka» («Bomba a mano» in gergo militare). Nel 2001 viene arrestato per traffico d’armi e un tentato colpo di Stato in Kazakistan! Questo gli costa due anni di prigione. Nel 2007 il PNB viene messo fuori legge. Tre anni dopo, Limonov si unisce agli oppositori di Vladimir Putin, e lancia il movimento «Strategia 31». Cerca quindi di candidarsi alle elezioni presidenziali, cosa che gli vale un ennesimo arresto.

Nel 2016, la biografia romanzata di Limonov dello scrittore Emmanuel Carrère riceve il Prix Renaudot a Parigi, e lo riporta alla ribalta dei media. A proposito di Carrère, Limonov dice: «Gli auguro di finir male. Tutti i grandi scrittori finiscono male!». Nell’introduzione al suo Libro dell’acqua, scritto in prigione, si chiede quali cose siano state per lui essenziali: «Ne ho scoperte solo due: la guerra e le donne».

Nel maggio 2019 torna a Parigi per l’ultima volta, desideroso di portare il suo sostegno al movimento dei Gilet Gialli. È già molto malato, ma continua a bere come sempre, bruciato da quella stessa fiamma che lo ha tenuto in piedi per tutta la vita. Più antiamericano che mai, si dichiara solidale alle repubbliche indipendenti del Donbass e approva l’annessione della Crimea. Continua a pubblicare a tutto spiano.

Muore il 17 marzo 2020 a Mosca, all’età di settantasette anni. «Questa morte di cancro nel bel mezzo di una pandemia è stata la sua ennesima provocazione» ha scritto Slobodan Despot. Limonov era fiero di essere sempre stato «dalla parte sbagliata». Fiero di essere sempre rimasto libero.

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